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I mille dubbi della piazza

Voto, esercito, Baradei: la protesta è fatta di sfumature diverse

di Redazione

Amr ha 20 anni, un braccio rotto ed è ormai orbo. Ha perso l’occhio il 28 gennaio, nel pieno della rivoluzione che ha spodestato Mubarak. Lo hanno ferito con un lacrimogeno da pochi passi il 22 novembre, nel rigurgito di violenza che ha colpito l’Egitto prima del voto. Piazza Tahrir è la sua seconda casa. Ogni tanto si ferma a dormire nelle tende allestite al centro e ai lati della piazza. Delle elezioni si disinteressa «perché la rivoluzione è qui e non è finita. Posso anche stare senza un occhio e senza un braccio, ma non permetterò al mio paese di tornare sotto un regime».
Amr è uno dei tanti giovani che sono stati pronti a dare la vita per conquistare il proprio spazio di libertà e democrazia e oggi hanno difficoltà a decifrare il futuro. Dove andare? Che fare? Si interrogano i ragazzi e le ragazze della rivoluzione. Spesso in ordine sparso. Alla ricerca di qualche risposta.
Cercano risposte dal voto. «Ma non serve a nulla» spiega Ahmed, dentista, un’esperienza di due anni negli Stati Uniti. «Sono elezioni farlocche. Lo sapete bene in Occidente. Abbiamo cominciato a votare il 28 novembre, finiremo l’11 marzo, il parlamento si insedierà ad aprile. E nel mezzo l’Egitto andrà alle urne 12 volte, con una cadenza di quasi un turno a settimana. Anche se volessimo essere in buona fede, la possibilità di brogli e manipolazioni è altissima».
In molti sono alla ricerca di un leader carismatico, che li sappia far uscire dall’impasse. «Ma il leader non c’è», afferma Sarah el Sirgany, giornalista e blogger. «Mohamed El Baradei non ha carisma. Le poche volte che è passato da piazza Tahrir è sembrato quasi a disagio. Sarà un buon tecnocrate, ma non è in grado di parlare ai giovani che hanno vissuto la rivoluzione».
Altri le cercano dall’esercito. «Almeno loro ci difendono, anche dalla polizia», afferma proprio Amr. Ma non tutti sono d’accordo con lui. Saif, uno dei volontari dell’ospedale da campo a Tahrir, dice: «I militari fanno il doppio gioco. Fingono di mostrarsi vicini al popolo, ma allo stesso tempo fanno di tutto per rimandare il giorno in cui molleranno la presa. E non esitano a inviare la polizia in prima linea per poi intervenire e sembrare i salvatori della patria. Gli ultimi morti caduti sul terreno sono anche colpa loro».
La verità è che comprendere l’Egitto è molto difficile. Ogni situazione è complessa. E non c’è solo Tahrir. «I giovani rivoluzionari hanno stufato», confida Mahmoud, uno dei tassisti che da quella piazza non passa più da quasi un anno «possono anche essere un milione laggiù, ma ci sono altri 79 milioni di egiziani che vogliono tornare a una vita normale. Io a votare ci sono andato. Ho scelto i Fratelli musulmani perché almeno loro hanno un’idea chiara. Però ora basta sommosse. Voglio lavorare in pace».

Obiettivo trasparenza
Hossam el Hamalawy, uno degli attivisti e blogger più in vista in Egitto, offre la sua ricetta per il futuro. «La cacciata di Mubarak è stato solo l’inizio di un processo. In Occidente avete celebrato la rivoluzione non violenta facendo passare l’idea che da metà febbraio in poi fosse tutto risolto. Ma noi sapevamo bene che la situazione era diversa. Primo, questa rivoluzione è stata anche violenta e continuerà ad esserlo se le cose non cambiano. Secondo, io delle elezioni gestite dalle stesse persone che le gestivano sotto Mubarak non mi fido. Terzo, oggi dobbiamo rimboccarci le maniche e cominciare la democratizzazione dal basso. Dobbiamo andare nelle fabbriche, nei campi, costruire dei sindacati liberi e indipendenti. Solo se avremo una società più matura, potremo aspirare ad avere un potere trasparente e indipendente».
Già, ma tra le mille forze contrastanti dell’Egitto contemporaneo chi è in grado di governare questo processo? Mina, cristiano copto, uno degli attivisti del Movimento 6 Aprile, ha fiducia. «Io sono sicuro che siamo sulla strada giusta. Pur tra mille contraddizioni, l’Egitto marcia in una direzione. Il desiderio di democrazia, libertà, trasparenza è ormai penetrato nella società. Le elezioni portano con sé molti dubbi. Io stesso sono stato indeciso se recarmi alle urne fino all’ultimo. I militari potranno soffiare sulle divisioni religiose e politiche. Ma io sono certo. Indietro non si torna». Detto così, da uno che nell’ultimo mese ha visto morire sia gli amici che si battevano per la libertà politica sia quelli, copti come lui, che manifestavano per la libertà religiosa ci si dovrebbe fidare. Indietro, forse, non si torna.

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