Non profit

Il paradosso della paga ai “poveri” dialogatori

Cosa insegna il caso sollevato da "Repubblica"

di Redazione

È uscito su “Repubblica.it” , qualche settimana fa, un interessante articolo. In pratica un giornalista ha fatto il “dialogatore” ovvero la persona che ferma la gente per strada chiedendo loro di impegnarsi per un “sostegno a distanza” tramite il Rid. Il giornalista mette sul sito il contratto mensile (tutto o quasi a percentuale, in ogni caso non più di 300 euro al mese). Ovviamente c’è stata la solita levata di scudi, da parte di tutti: «ma come?», «che vergogna!», «che figura ci fa il non profit?» e via di seguito. Tutto bene. Ma non è questo il punto. Questi contratti sono solo la conseguenza dell’opinione che questi stessi giornali hanno del non profit. Mi spiego. È facile per i giornali far nascere il solito scandalo. Salvo il fatto che sono gli stessi giornali che accusano il non profit di avere i costi di raccolta fondi troppo alti. Allora, fatemi capire. Da una parte si attacca il non profit perché ha dei costi di raccolta fondi troppo alti («ma che vergogna, quasi il 20% di quello che si raccoglie serve a pagare la raccolta fondi», «ma allora che beneficenza è?») e dall’altra gli stessi giornali attaccano il non profit perché paga poco i propri collaboratori (cercando di tenere i costi bassi? che è proprio quello che vogliono loro!). Delle due l’una:
1. O si paga la gente per bene, e allora si ha professionalità, e quindi si deve ammettere che i costi di fundraising si alzino e quindi il mondo non deve più guardare come scandalo il fatto che le percentuali di costo siano del 30 o 40 o anche 50% del ricavo o magari anche il 90% in certi momenti storici.
2. Oppure si paga da fame la gente perché altrimenti i donatori un po’ bigotti e moralisti e le onp pavide si spaventano nel dichiarare i costi di fundraising troppo alti (come se fosse una colpa da espiare).
Che modello “politico” si sceglie? Io non ho dubbi.

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