Saranno state certamente “difficili” le decisioni assunte negli ultimi giorni dal governo sul lavoro. Ma di sicuro non “eque”, come ha invece dichiarato sull’aereo che lo portava in Asia il presidente del Consiglio, Mario Monti. Quantomeno non quelle relative all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Ne ho avuto una chiara visione ? un improvviso flash, come di una luce che d’improvviso si accende ? venerdì 23 pomeriggio, ad Alessandria, nell’aula più grande dell’università. Si svolgeva un’anomala, affollatissima “lezione” sul caso dell’Eternit di Casale Monferrato, presenti le famiglie delle vittime, gli avvocati che avevano da poco vinto il processo a Torino, docenti di giurisprudenza, sociologi, politologi, sindacalisti, studenti?
Quella dell’Eternit è una tragedia immensa, di cui è difficile addirittura percepire la dimensione: migliaia di uomini e di donne vittime del mesotelioma pleurico, una malattia che non perdona. Altre migliaia ? forse decine di migliaia ? che la microfibra mortale generata dall’amianto se la portano già dentro, come un ordigno a orologeria. Una fabbrica nella quale si è lavorato per anni, per decenni, senza protezioni, e la cui proprietà ha nascosto a lungo, anche dopo che la pericolosità dell’amianto era stata certificata, i rischi, lasciando contaminare i dipendenti, le loro famiglie, e l’intera popolazione dell’area circostante. Perché il business contava di più.
Quella vicenda ha ora avuto un momento di giustizia, con la sentenza del Tribunale di Torino che, per la prima volta, ha condannato due uomini potentissimi, appartenenti all’empireo delle multinazionali globali ? il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny ed il barone belga Louis De Cartier de Marchienne ?, a 16 anni di reclusione. Una sentenza il cui valore esemplare è stato ampiamente illustrato. Ma la cosa che più mi ha colpito, in quel pomeriggio, è stato il racconto della fatica che quegli uomini e quelle donne, parenti delle vittime e vittime essi stessi, hanno dovuto fare per giungere a questo. Le difficoltà incontrate. Il muro di silenzio, di omertà, di ostilità che hanno dovuto superare negli anni in cui chi, in fabbrica e in città, denunciava il pericolo mortale dell’amianto, veniva ridicolizzato, accusato di allarmismo, di “catastrofismo”, isolato da una propaganda aziendale potente di mezzi e di complicità, guardato con sospetto come chi mette a rischio un posto di lavoro prezioso…
A Casale, solo l’alleanza tra le famiglie delle vittime e un gruppo di medici capaci e coraggiosi, da una parte, e l’amministrazione comunale dall’altra, ha permesso il miracolo. Ma è stata dura, soprattutto dentro le mura della fabbrica. Nei reparti di produzione. Nel filmato, eccezionale, che racconta la vicenda ? intitolato significativamente Polvere ? a un certo punto un sindacalista dice testualmente: «Solo dopo il 1970, con lo Statuto dei lavoratori, abbiamo preso coraggio, e incominciato a denunciare il pericolo». Prendere coraggio! Solo quell’ombrello, aperto sulle spalle ? fragili, esposte ? di chi in fabbrica è in una condizione di debolezza, ha ridato voce a quegli uomini. Cosa accadrà, ora, se quello scudo s’incrina? Dove troveranno il coraggio, nelle fabbriche, per difendere sé e i propri compagni, gli uomini e le donne esposti al rischio della propria salute? Che fine faranno quei delegati che incalzano i responsabili aziendali sui temi della “sicurezza”, che controllano l’efficienza dei meccanismi salvavita, che denunciano le trasgressioni e le negligenze (quelle che alla Thyssen Krupp sono costate la vita a sette lavoratori) ? che rompono quotidianamente le scatole ai pasdaran della produzione ad ogni costo ?, se da domani il padrone potrà liberarsene, semplicemente dichiarandone l’eccedenza economica, e mettendo in conto una quindicina di mensilità come prezzo?
Il presidente Napolitano, che torna spesso sull’argomento quando si trova a commentare le troppe morti bianche nel nostro Paese, ha tenuto conto di questo fattore? Ha preso in considerazione questo rischio annidato nella pur necessaria riforma del mercato del lavoro? Se non altro per evitare, poi, lacrime di coccodrillo.
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