Poteva essere l’ennesimo libro su una leggendaria esperienza. Invece quello di Adele Corradi, professoressa lei stessa e “libera” collaboratrice di don Lorenzo, è un libro che prende in contropiede. L’autrice ci spiega perché s’è decisa a scriverloSe non parlano coloro che hanno conosciuto di persona il Priore di Barbiana finirà che la sua storia la scriveranno i ricercatori storici, quelli con cravatta Yves Saint-Laurent, e l’umanità profonda così come la solitudine indicibile di quel prete-maestro-testimone-polemista finirà dimenticata o neutralizzata del tutto». Lo scriveva Maurizio Di Giacomo, giornalista e biografo di don Milani, in una lettera di parecchi anni fa indirizzata ad Adele Corradi, insegnante, per anni stretta collaboratrice del sacerdote alla scuola di Barbiana. Uno stimolo in più, per Adele, per mettersi all’opera. Attenzione: non per raccontare la storia straordinaria di don Milani («chi la volesse conoscere dovrà rivolgersi altrove», precisa lei), ma per «lasciare parlare i ricordi».
Una decisione che ha richiesto un lungo periodo di incubazione?
Effettivamente, ho atteso parecchio tempo prima di decidermi a scrivere. Odio l’aneddotica su don Milani, quei discorsi tesi a mitizzarne la figura: severo con i borghesi, austero con le donne eccetera. Ecco, questi discorsi hanno sempre avuto la finalità ultima, più o meno voluta, di farne la caricatura. È vero, don Lorenzo è stato il personaggio carismatico, sensibile, anche urtante, talvolta, delle biografie, ma credo che negli ultimi quarant’anni, nella vasta produzione di lavori su don Milani, siano state fatte troppe caricature, il più delle volte dannose.
Lei ha utilizzato la sua memoria come fonte.
Mi sono chiesta: cosa potrei raccontare su don Milani io che l’ho conosciuto, senza farne una caricatura? È così che ho provato a raccontare ciò che era ed è mio: il rapporto che avevo con lui, ciò che è stato importante per me. Ho iniziato a scrivere e mano a mano che scrivevo mi sono accorta che non veniva fuori il ritratto di don Milani, ma venivo fuori un po’ io ? assieme a lui ? e sotto una luce nuova.
Qual era la sua più grande preoccupazione, lungo questo percorso?
Prima della pubblicazione mi era venuto il dubbio che nel libro si potesse perdere la laicità di don Milani e della sua scuola. Una volta chiesi a don Milani se non stesse facendo una scuola un po’ troppo laica. Temevo che la mia obiezione lo potesse offendere. Al contrario,mi spiegò: «Gesù è parola e qui si insegna la parola». Spero che nel libro non si perda la spiritualità, in senso laico, dell’insegnamento di don Lorenzo, in cui a mio parere consiste la sua originalità: quella di un prete di grandissima fede ? di una fede particolare ? che però nell’educazione era un laico.
È anche per questo che ha esitato a lungo prima di prendere la decisione di pubblicare questi «frammenti di vita sparsi»?
Non soltanto. Un’altra preoccupazione era l’aver rimpiccolito don Lorenzo. Per esempio, non sapevo se fosse giusto dire che gli piaceva il gelato. Così mi sono rivolta a degli studiosi seri. Ho chiesto loro: ne diminuisco la statura? Tutti mi hanno detto che per loro don Milani così risultava umanizzato. E, anche prima di cominciare a scrivere, diversi amici mi avevano fatto capire che era veramente un peccato che tutto quello che io avevo visto e sentito non fosse ancora stato scritto. Così ho iniziato, pensando: decideranno dopo la mia morte se vale la pena pubblicare i miei ricordi. Poi, invece, mi hanno convinto a dare subito il libro alle stampe.
Quali sono state le reazioni da parte degli ex allievi di Barbiana?
Alcune critiche, c’è chi l’ha trovato rimpiccolito. Ma d’altra parte penso che diversi di loro lo abbiano mitizzato: erano bambini quando don Milani era vivo e crescendo è diventato un po’ il loro mito. Nel libro io mi sono ostinata a tenere tutto, anche quando gli amici mi esortavano a tagliare qua e là, per paura delle reazioni dei lettori più superficiali. Ma io me ne infischio, dei lettori superficiali.
Il suo libro, però, coglie perfettamente l’importanza della relazione tra don Milani e i suoi allievi.
Effettivamente quello che sfugge quando si parla di Barbiana è il rapporto maestro/scolaro. Io rifuggo sempre da ogni definizione di questo rapporto in termini di amore, perché si rischia di cadere nel melenso: l’amore di don Milani si poteva tranquillamente esplicitare in una pedata. Era un amore costruttivo, che teneva d’occhio la persona e la sua crescita. Una volta, rispondendo a una critica di un allievo riguardante l’istruzione ricevuta, don Milani scrisse: è un gran successo per una scuola ogni qual volta uno scolaro si accorge di non avere più bisogno della scuola. Un educatore che riesce a far dire questo al suo educando è un vero educatore.
Lei racconta di essere arrivata a Barbiana proprio nel giorno in cui don Lorenzo e i suoi ragazzi stavano iniziando un nuovo tipo di esercizio: la scrittura collettiva…
Per don Milani era un esercizio importantissimo. Io ho avuto la fortuna di arrivare a Barbiana proprio quando questo esercizio cominciava, così sono stata testimone della stesura di quei testi scritti veramente in forma collettiva: Lettera ai ragazzi di Piadena e naturalmente Lettera a una professoressa. È questa scrittura che ha permesso anche a me di imparare a scrivere: ho imparato a togliere il superfluo, a entrare in argomento. Ci terrei che fosse esercitata anche oggi, a scuola e non soltanto. Perché è anche una scuola di ascolto: quando si scrive collettivamente ogni proposta va ascoltata. Nelle discussioni ? lo vediamo in televisione tutte le sante sere ? le persone parlano ma non si ascoltano, è un avvicendarsi e un sovrapporsi di parole una contro l’altra. Io ho avuto la grazia di discutere con don Milani partendo dall’idea che forse aveva ragione. Lui stesso quando parlavo mi ascoltava. Molti dicono che voleva avere sempre ragione. Si sbagliano. Era molto attento a ciò che gli diceva il suo interlocutore.
Lei riporta una frase pronunciata da don Milani dopo che lei lo avvertì che uno dei suoi allievi, Paolino, durante la lettura del giornale si distraeva immaginando di guidare un motorino: «Un contadino non può aver fretta che una pera maturi», disse Milani. È questa la sua “cifra pedagogica”?
Una volta, quando insegnavo, ho ripetuto questa frase alla mamma di una bambina della mia classe, affetta da una gravissima forma di psicosi. Lei rimase incantata, consolata. Bisogna stare attenti a non estetizzarla, però. È una bella frase, certo, ma questo non significa che don Lorenzo non fosse capace di tirare una pedata a un ragazzo che non stava attento. I metodi erano diversi a seconda del ragazzo: partire dal ragazzo che si ha davanti, quel ragazzo, quella realtà, quella storia, per farne il fuoco della nostra pedagogia.
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