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Rena Effendi: La fotografia che dà voce alle “zone del silenzio”

Nata a Baku, in Azerbaijan, è una fotografa nota a livello internazionale specializzata in fotografia documentarista. Ha vinto importanti premi e le sue immagini, all’intersezione tra arte e fotografia, sono state esposte in tutto il mondo. Rena Effendi è stata scelta come membro della giuria e special guest di Prisma Human Rights Photo Contest, un concorso internazionale e mostra di fotografia sui diritti umani e la libertà (Venezia: 11 settembre-11 ottobre).

di Cristina Barbetta

«È la condizione umana la cosa che mi affascina di più, e documentarla dalla strada», mi spiega Rena Effendi. Fotografa nota a livello internazionale, è nata a Baku, in Azerbaijan, nel 1977, e vive a Istanbul. Ha vinto importanti premi, come il World Press Photo, il Prince Claus Fund Award, il Getty Images Editorial Grant. Il suo primo documentario l'ha fatto nella sua città, Baku, nel 2001, mentre studiava pittura, e da allora non ha più smesso di fotografare. Per 6 anni, dal 2002 al 2008, ha percorso un oleodotto per 1700 km attraverso Azerbaijan, Georgia e Turchia, documentando l'impatto di questo progetto sulle vite degli abitanti. Questo viaggio è diventato la trama del suo primo, e pluripremiato, libro: “Pipe Dreams: A Chronicle of Lives Along the Pipeline”. Rena Effendi è stata scelta come membro della giuria e special guest di Prisma Human Rights Photo Contest, un concorso internazionale e mostra di fotografia sui diritti umani e la libertà che inaugura a Venezia l'11 settembre 2015, durante la 72esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, e prosegue fino all’11 ottobre . La mostra esporrà, oltre a immagini selezionate dal concorso, una serie di fotografie di Rena Effendi, facenti parte della sua raccolta Zones of Silence, che documenta la vita in luoghi dimenticati, «che sono usciti dal radar dei media internazionali e che sono diventati zone di silenzio».

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Quali foto verranno esposte a Venezia?
Ritratti di rifugiati a Baku, che vivono nell'ambiente inquinato della città, e di persone che continuano a vivere in condizioni difficilissime, nonostante il boom del petrolio. Ci saranno anche foto che ho fatto in giro per il mondo, dal conflitto Georgia-Russia (2008), a Chernobyl dove, nel 2010, ho fotografato donne, perlopiù anziane, che continuano a vivere nella “exclusion zone”- l'area situata vicino all'ex centrale nucleare, in cui il livello delle radiazioni è altissimo- perché hanno un legame molto forte con la loro terra.
In Congo ho fotografato le donne vittime della violenza perpetrata dal Lord's Resistance Army. E in North Dakota, nelle riserve dei nativi americani, ho documentato come la popolazione è riuscita a uscire da esperienze di abuso.

Qual è il messaggio che vuole dare con le sue immagini?
Mostrare la dignità umana, non la miseria. Fare vedere la capacità degli esseri umani di adattarsi a ogni circostanza, la loro resilienza. Le persone fotografate nelle Zones of Silence, che vivono situazioni drammatiche, riescono ad andare avanti, nonostante tutto.

Qual è il suo approccio alla fotografia?
In Georgia, durante la guerra, quando tutto succedeva molto velocemente, ed ero colpita dalla frenesia dei media, ho deciso di rallentare, di avvicinarmi, di fare foto delle case che le persone lasciavano per scappare dalle bombe. Fotografavo gli interni, l’atmosfera calma, il silenzio degli oggetti che dicevano molto della guerra e delle persone che li abbandonavano. Poi ho iniziato a focalizzarmi sui volti delle persone, cercando di catturarne lo stato d'animo: con un approccio personale, intimistico, molto lento.

Perché i temi sociali?
È la condizione umana la cosa che mi affascina di più e il fatto di stare per strada, a contatto con persone sconosciute, e poi conoscere un po' la vita di queste persone, e documentarla. Per il mio primo lavoro, iniziato nel 2001, ho camminato per 4 anni in un quartiere di Baku che stava vivendo grandi cambiamenti. Venivano costruiti grattacieli grazie al boom dall’industria del petrolio, e demoliti tutti i piccoli vecchi edifici, mandando via chi li abitava. Ho fotografato questo boom edilizio, il modo in cui ha influenzato gli abitanti e ha cambiato il tessuto sociale della mia città. Ero molto coinvolta da questo lavoro, e affascinata da questo quartiere. E’ un posto molto speciale. Per me l’anima di Baku era proprio lì, nel quartiere di Mahala. Questo primo documentario è poi diventato parte del mio primo libro: Pipe Dreams.

Come si mostra la violenza attraverso le immagini?
È una scelta giornalistica personale. Prendiamo la pittura: da un lato c'è per esempio il manierismo teatrale di Caravaggio, dall'altro ci sono pittori come Vermeer e Rembrandt, che mostrano un momento molto calmo. Io sono più in questa posizione di silenzio. Faccio anche foto con un grande impatto emotivo ma la mia natura è riflessiva e non vado alla ricerca di azioni drammatiche.

Come ha iniziato a fotografare?
Ho studiato pittura per un anno e mezzo. Mia nonna era una pittrice e pensavo lo sarei diventata anch'io. Da piccola, al posto dei classici libri colorati dei bambini, avevo un libro di quadri del Louvre e uno sui pittori fiamminghi. Nell'Unione Sovietica erano molto rari i libri con immagini colorate. Quelle immagini sono state di grande stimolo visivo e mi sono rimaste molto impresse: mi ricordo ancora molto bene i quadri di Bruegel, Vermeer e Rembrandt. Li guardavo e costruivo storie intorno a questi quadri. Poi mi sono resa conto che avevo bisogno di uno strumento diverso per esprimermi e così ho scoperto la fotografia. E da allora non ho potuto più fare a meno di fotografare. Era il 2001. Quello che mi affascina della fotografia è che, a differenza della pittura, ti consente di raccontare una storia utilizzando diverse immagini.

Che cosa le ha insegnato la fotografia?
A non essere giudicante, perché quando vai in così tanti paesi vedi molti fallimenti e cerco di non giudicare le persone ma di amarle.

Cos’è cambiato in lei grazie alla fotografia?
Sono stata così tanto tempo per strada per il mio lavoro, prima a Baku, poi in giro per il mondo, che ho imparato a capire l’umore della gente, il linguaggio della strada. Sono diventata capace di leggere l’ambiente. I miei occhi sono diventati più acuti. Fotografare è come indossare lenti di ingrandimento giganti. Ho iniziato a vedere cose che non avevo mai visto prima. E’ un diverso stato mentale, uno stato mentale di meraviglia.

Foto della gallery:

Prima foto: Base militare russa bombardata a Tshinvali. Ossezia del Sud. Guerra tra Russia e Georgia. Agosto 2008

Seconda foto: Ala Tarasova, 68 anni, da 17 anni vive sola vive sola in un campo rifugiati a Tskhvari Chamia,

Terza foto: Bagno con oli medicinali nel villaggio di Bibi-Heybat. Baku, Azerbaijan. 2006

Le immagini sono di Rena Effendi.

http://www.refendi.com/

http://www.prismaphotocontest.com/


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