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A Kinshasa un videomaker italiano racconta il dramma degli ndoky, i ragazzini stregoni
di Redazione
Per lavarci aspettavamo la pioggia, per mangiare cercavamo qualcosa tra i rifiuti; il momento più difficile è quando sei malato e nessuno ti chiede cosa è successo. I ragazzi di strada prendono anche 15 pillole di valium al giorno, alcol o erba. Per non pensare. Quando il sole si abbassa cominciano le brutte cose. La mattina mi sveglio all’urlo di «vai via sorciè, vai via ndoky”».
Ndoky significa stregone, portatore di malefici. Ndoky è il bambino accusato di essere posseduto da spiriti malefici in quella parte di Congo dove il mondo invisibile conta quanto, o forse più, del mondo visibile, perché sono due realtà che vivono da sempre parallele. Ndoky perché muore la sorella, perché suo padre perde il lavoro: quando capitano eventi nefasti di questo tipo è colpa di Ngoino, la comunità lo addita come bambino stregone che attira sventure.
Questa è la storia di un bambino abbandonato per strada quando aveva 8 anni: ora ne ha 18. L’ha raccontata a un italiano, che ha girato per i quartieri più poveri di Kinshasa. E questa storia dura, difficile, difficile da capire per chi non ha respirato questa cultura, è diventata un documentario: Questo è il mio paese, mi chiamo Ngoino.
In presa diretta
Quella di Ngoino è una delle 250mila storie dei bambini di strada del Congo, 25mila dei quali vivono abbandonati a se stessi per le strade della capitale, Kinshasa, città che ha oggi oltre 10 milioni di abitanti (erano 400mila nel 1960). Figli di vittime di guerra o di famiglie indigenti, i bambini di Kinshasa vengono ogni giorno sottoposti a violenza fisica e psicologica, abusi di ogni genere, stupro, lesioni, privazione di cibo, abbandono, solitudine, morte. Secondo l’Ibcr – International Bureau for Children Rights, il 90% dei bambini di strada di Kinshasa è stato segnato da un’accusa di stregoneria. In uno dei Paesi più ricchi al mondo di risorse naturali, i diritti umani restano una chimera, i beni di prima necessità un miraggio. E le superstizioni determinano le esistenze.
È la storia degli enfants sorciers, bambini stregone, «bambini accusati dalle famiglie, dai parenti o dai membri del loro quartiere come responsabili di morte di un membro della famiglia, come causa di malattie o di qualsiasi altro male che colpisce la struttura familiare». Quando la prima volta arriva in Congo come volontario presso l’Oseper, sette anni fa, Adriano Foraggio, fotografo, videodocumentarista, classe 1984, sentiva di aver coronato un sogno: arrivare in Africa, per raccontarla.
Quando torna a casa per la prima volta da Kinshasa sa che il viaggio non finisce lì, ma sarà un’esperienza fatta di molti ritorni e partenze: un breve addio a quella parte di Africa in cui tornerà nel 2009, per tornare ancora una volta indietro, a Napoli, dove comincia a raccontare la storia di Ngoino e dove si laurea con una tesi che si intitola “Il fenomeno dei bambini stregone nella Repubblica Democratica del Congo, il caso di Kinshasa, indagine sul terreno”.
Le sue immagini hanno didascalie speciali per spiegare la storia dei bambini stregone. Sono poesie di Papy Ilunga, «caro amico congolese, nonché educatore dell’infanzia che, a partire dal 2005 mi ha accompagnato nei reportage video e foto», racconta Adriano. Ma non è abbastanza: il mal d’Africa lo riporta indietro, perché vuole raccontare più a fondo, più a lungo, sempre la stessa storia. È rimasto con i ragazzi di strada per un anno, svolgendo il servizio civile internazionale ancora presso l’Oseper, fino al 2011: se non l’avesse fatto, nessuno avrebbe raccontato questa storia con le parole di chi la vive. Il secondo documentario è ancora in fase di montaggio, Vita ne ha potuta vedere un’anticipazione.
La legge della strada
Mentre impazzano le telenovelas sulla stregoneria che tengono i congolesi attaccati alla tv, mentre si distribuiscono volantini per pubblicizzare le abilità dei pastori delle Chiese del risveglio di Kinshasa, Adriano va in giro per una capitale dove omicidi e violenze si incontrano ad ogni angolo di strada. «La spettacolarizzazione della sofferenza, la vittimizzazione delle persone filmate, crea asimmetria informativa»: Adriano lo sa, lo dice, lo dimostra. L’occhio di vetro della telecamera è muto, non giudica, non interferisce. Non riporta la “solita Africa” con toni pietistici, cui l’occhio occidentale ormai è diventato ? purtroppo ? insensibile. Registra senza alterare le voci della strada, dove sono i ragazzi stessi a parlare.
«Sono i ragazzi più adulti a proteggere i ragazzi più giovani. Io ho formato molte ragazze della mia strada. Bisogna consumare il passaggio, perché con questi soldi si vive. Anche se mi picchiano, io resisto in quando adulta di strada, e non ho paura». “Consumare il passaggio” significa iniziare a prostituirsi. La ragazza ha 24 anni, il suo volto ne dimostra 10 di più. Lo sguardo buca il video per ricordarti che il Congo «è uno dei posti peggiori al mondo dove essere donna: polizia, militari, oltre che ragazzi, violentano le ragazze di strada, ma la violenza non si ripercuote solo sulle donne. Anche i bambini sono vittime: più giovane sei, meno c’è rischio di contrarre l’Hiv».
«Quando piove alcuni ragazzi vanno a scassinare boutique e depositi a ritmo dei tuoni. Il giorno dopo si fa festa con quello che si è guadagnato», dice un altro ragazzo nel filmato. È facile per le strade di Kinshasa divenire kuluna, criminale, legarsi a una baby gang strutturata gerarchicamente, dove i legami familiari vengono reinventati. «La mia banda si chiama Kaisala, termine che significa unione, complicità, ma anche fare qualcosa senza saperlo». I ragazzi di strada spesso vivono di «piccoli furti, attività illecite, prostituzione, mentre l’attività di lustrascarpe è tra le più redditizie, dopo la prostituzione».
Il dovere di raccontare
Globalizzazione e tradizione: in seguito alla colonizzazione, i mutamenti legati agli sconvolgimenti politici, la povertà e la guerra, lo sfasciarsi dei legami familiari ha messo in prima linea i più deboli, i più fragili: i bambini. Con l’evangelizzazione del territorio sono nate le cosiddette Chiese del risveglio, di matrice pentecostale, dove il prete-pastore, che ha sostituito l’antica figura referenziale del capotribù, detto nganga, guaritore, lega la sua fama al numero di esorcismi compiuti sugli ndoky.
Save the Children ha recentemente denunciato questi sacerdoti-santoni per i ripetuti episodi di tortura accertati. Prospera l’economia dell’occulto, dell’imprenditoria religiosa: in un Paese dove seguire il rito domenicale costa 200 franchi, gli esorcismi sui bambini costano molto di più, ma «se l’esorcismo riesce, un bambino è riaccettato nella comunità d’origine».
Continuare a raccontare di nuovo, instancabilmente, quella parte di mondo che non può dimenticare, fotogramma dopo fotogramma, come un imperativo categorico dettato dalla nuova etica suggerita dall’Africa: Adriano ha la responsabilità della narrazione, della testimonianza, ne fa quasi impegno civile. «Del Congo, quando vai via, ti rimane il mal di Congo, sai di dover tornare. Del Congo ti rimangono storie che non puoi dimenticare, che non puoi non raccontare agli altri: ho visto morire un diciannovenne per un’infezione a un dente, gli amici fecero una colletta per evitare la fossa comune». Immagini, date, ricordi che stringono nella morsa della vergogna chi lo ascolta. So che forse tornerà in Congo o forse il Congo tornerà da lui.
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