Non profit

Al Cairo ho pescato tre jolly che mi hanno cambiato la vita

Cristina Bocchialini

di Redazione

È l’unica italiana selezionata, tra 80mila filmaker nel mondo, per il film “Life in a Day”, il progetto di cinematografia democratica lanciato da Ridley Scott lo scorso luglio. Cristina ha scelto di raccontare la sua giornata nella capitale egiziana, realizzando un documento che, oggi, è già un pezzo di storiaIl fermoimmagine si blocca al 24 luglio 2010. L’Europa ha in prima pagina i 21 ragazzi morti alla Love Parade di Duisburg, l’America la marea nera della BP, l’Asia il war game tra 8mila militari che va in scena in Corea del Sud. Fuori dalle pagine dei giornali, nel mondo, la gente vive. Nasce, muore, ama, lustra le scarpe, bada alle capre, fa poltiglia di prosciutto a colazione. Il fermoimmagine blocca la corsa del tempo sull’orologio mondiale. E parte lo zoom.
Life in a day racconta «che cosa voleva dire essere vivi su questo pianeta il 24 luglio 2010» ed è il «primo lungometraggio al mondo realizzato dagli utenti di YouTube». Ottantamila persone hanno risposto all’appello di Ridley Scott, regista di Alien, Il gladiatore e Thelma e Louise, e caricato su YouTube i loro filmati. Da quelle 45mila ore di immagini, il premio Oscar Kevin MacDonald ha selezionato i video di 26 autori e ci ha cucito un film, presentato il 27 gennaio al Sundance Film Festival. Tra loro c’è anche un’italiana, la sola, Cristina Bocchialini.
Una bella soddisfazione, ha firmato una sorta di eredità per i posteri…
Sì, credo che l’importanza del progetto si vedrà proprio nel futuro, quando fra trecento anni qualcuno, guardando questo film, si stupirà forse del fatto che convivevano contemporaneamente così tante realtà, che sembrano prese da epoche diversissime.
Avete girato al Cairo, una città che in questi giorni sta attraversando momenti drammatici. Il vostro documento, già oggi, sembra documentare un mondo di un secolo fa…
Sì, il cambiamento in corso è sconvolgente. Mio marito Ayman, filmmaker pure lui, è egiziano. Lavoriamo molto per Al Jazeera, siamo stati spesso lì, perché l’Egitto è un Paese che ha storie fantastiche, peccato manchi la libertà di riprendere ciò che vedi. Lo scorso 24 luglio abbiamo scelto tre storie del Cairo che pochi conoscono.
Vediamole una per una.
La prima è quella di una famiglia che vive su una barca, sul Nilo. Mamma, sorella e tre bimbi che non sono mai andati a scuola. La barca è veramente piccola, nemmeno quattro metri, e queste cinque persone ci fanno tutto: cucinano, dormono, ci allevano persino alcune anatre. È una sorta di piccola comunità, con accanto la barca dei nonni e altre due o tre famiglie; pescano il pesce e lo vanno a vendere al mercato. Per loro è normale vivere così. Così come per le migliaia di persone che vivono alla Città dei Morti, il più grande cimitero della città, che è il nostro secondo video. Alcuni hanno costruito la loro casa nel cimitero, altri vivono proprio nella cripta: sopra luce e gas, sotto una botola con il morto avvolto in un lenzuolo e coperto con un po’ di sabbia.
Il terzo video?
Riprende una famiglia di amici, cristiani copti. I genitori sono sordi e i tre figli, che conoscono sia l’arabo sia la lingua dei segni, fanno da tramite fra loro e il mondo. Anche questo è un tema che, solo poche settimane dopo che abbiamo girato, è diventato di tragica attualità.
C’era un intento sociale nello scegliere proprio queste tre storie per partecipare al progetto di Scott?
No, non le considero situazioni “sociali”. Life in a day si è rivelato essere una testimonianza sorprendente anche per noi, oggi, non solo per gli uomini del futuro. Poi sì, abbiamo pensato anche che era un’occasione per – come si dice? – dare voce a chi non ha voce.
Detto così è un po’ retorico; le immagini, invece, non lo sono.
Intendo dire che queste persone non avrebbero avuto la possibilità di farsi ascoltare; loro non chiedono proprio nulla, anzi sono molto orgogliosi della loro vita.
E come si fa a mostrare questa sfumatura in un documentario?
Lasciando parlare loro, senza guidarli con domande che possono mettere in risalto aspetti emotivi o patetici. E comunque per Life in a day la produzione ha chiesto puro girato, senza montaggio e senza musiche. Anche se è ovvio che la durata stessa delle inquadrature già dà il tono.
Lei e suo marito avete fondato una casa di produzione a Los Angeles, la Boga Films: cosa consiglia a un giovane?
All’inizio io ho passato quattro anni a bussare alle porte, quasi a implorare di farmi lavorare gratis. Poi negli Stati Uniti ho mandato una mail a un grande produttore – all’epoca, per dire, stava lavorando a un film con Robert De Niro -: era un giovedì, il lunedì mi ha chiamato nel suo studio. Non è giusto, tutti devono avere la possibilità di iniziare, perché non puoi mai sapere chi hai davanti. Ai giovani dico: non aspettate che qualcuno finanzi una vostra idea. Bastano pochi soldi per una piccola telecamera: la qualità del prodotto viene dopo, quel che conta è l’idea.
Il prossimo progetto?
Un documentario sulla prostituzione maschile a Roma. O, meglio, sui sogni di quattro ragazzi stranieri che si infrangono…

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