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Anche gli indignados hanno spazio nella mia mappa della modernità

di Redazione

nelle piazze spagnoleSono un itinerante, un nomade senza percorso fisso che a volte prende, per caso, delle vie traverse che conducono a paesaggi inediti». Etnologo, già direttore dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, Marc Augé non esita a definire lo sradicamento e l’essere sempre altrove come i tratti costitutivi del suo oramai lungo tragitto di “cartografo della modernità”. Essere itinerante, prosegue Augé, «vuol dire non escludere il ritorno» e tutti quei percorsi circolari attraverso i quali «si ritorna al punto di partenza e si ritrovano gli altri, per confermare il legame e ricreare il luogo». I veri luoghi, osserva, «sono dentro di noi» e la scrittura può forse aiutare a «fare luogo, a fare spazio» in un mondo troppo affollato di immagini.
In apertura del suo ultimo libro, Straniero a me stesso, lei pone a sé e al lettore due domande. La persona che ricorda, di cosa si ricorda? La persona che scrive, perché e su cosa scrive?
La persona che ricorda, si ricorda di una realtà erosa e troncata, scolpita dal tempo. Forse proprio per questa ragione, scrive. Per tagliare ciò che lega il presente e il futuro a un passato che rischierebbe unicamente di soffocarla. Siamo per tradizione portati a credere che il senso ci arrivi dal passato. La psicoanalisi ci ha indotti a frugare tra sogni, ricordi e rimorsi per scoprire la chiave di un enigma irrisolto che riguarda le nostre vite. Ma in fondo, si scrive per il profondo bisogno di gettare ponti e quindi di essere letti, fosse anche da una sola persona. La scrittura, la parola sono fatte per stabilire una relazione. Questo è però un compito che impegna il futuro, comporta un rischio e apre un’avventura. Nessuno conosce realmente il destino delle parole.
Abbiamo bisogno di scrivere, dunque, non solo per scavare, ma soprattutto per costruire?
Sì, e proprio per questo sono convinto che abbiamo bisogno di scrittura. E abbiamo bisogno di una scrittura che si prenda il proprio tempo, che sposi i movimenti di un tempo che può essere quello della descrizione e della riflessione. L’immagine, al contrario della scrittura, dice tutto e non dice nulla. Un’immagine non parla, se non la si fa parlare. Per questa ragione, scrivo. D’altra parte, siamo “stranieri a noi stessi” nel senso che, come un etnologo non è mai in completa convergenza di opinioni e sentimenti con la cultura propria o di quelli che sta osservando, la distanza fa parte di noi. La distanza fa parte dell’essere etnologo, ma anche dell’essere scrittore. Distanza da sé, distanza dagli altri. Ogni individuo è plurale, le figure – e le pratiche – dell’etnologo e dello scrittore non fanno che ricordarcelo.
Eppure viviamo in una “civiltà” sempre più fondata sull’immagine.
Oggigiorno, si comunica molto. Abbiamo sms, internet, Facebook, ma la scrittura riflessiva, una scrittura che si prenda il proprio tempo, è qualcosa che dà inizio a un autentico scambio. E poco importa se non c’è dialogo formale, tranne in poche occasioni. Ciò che conta è che il lettore si appropri del libro, lo faccia suo, impari, lo critichi, lo interpreti. Si faccia a sua volta autore. Le immagini fanno parte del nostro mondo e partecipano alla confusione tra luogo e non luogo. Arriviamo al paradosso di avere bisogno delle immagini per vedere la realtà, di servirci della finzione per darle un significato. Il dominio delle immagini, delle tecnologie della comunicazione e la sovrabbondanza di “informazione” danno la sensazione di un presente perpetuo e fanno eco alle teorie della fine della storia. Teorie che suggeriscono che abbiamo trovato la formula ultima per la vita sociale. Oggi questa formula sembra rappresentata dal binomio “democrazia rappresentativa-economia di mercato”.
Cosa non funziona in questa formula?
Nello spazio circoscritto da questa “formula”, il neonazionalismo e il riemergere di vecchie ideologie razziste sono considerati deviazioni secondarie, avventure effimere. Di tanto in tanto un tribunale emette le proprie condanne per i consueti “crimini contro l’umanità”. Ma non per questo siamo al sicuro. Non è infatti scontato che non si stiano riproducendo le illusioni dell’era vittoriana e di un evoluzionismo sociale che, secondo i suoi cantori, avrebbe dovuto condurci alla felicità. In effetti il divario tra i più ricchi dei ricchi e i più poveri dei poveri continua a crescere, così come quello tra i più colti e i più ignoranti. E questa tendenza sembra la premessa per nuove violenze fisiche e ideologiche.
Questo ha spinto la gente in piazza, in Grecia come in Spagna. Spesso, però, il passaggio dalla rassegnazione all’indignazione è solo lo stadio che prelude a una rassegnazione ancora più grande e vuota…
Penso che la confusione dei giovani, oggi, derivi dalla coincidenza negativa tra storia individuale e storia collettiva. Ciò che Durkheim chiama “il sacro” transitava dalla coincidenza particolarmente vissuta e sensibile di queste due storie. A volte le persone possono sentire che il loro percorso individuale attraversa la storia stessa: è successo per esempio nei giorni del maggio 68, con la fine del regime franchista in Spagna o con la caduta del muro di Berlino. Oggi gli indignados si uniscono per mostrare le difficoltà della loro vita individuale e cercare di “fare” simbolicamente la storia, non riuscendo a incontrarla. Così facendo, essi creano il il luogo – e il legame – con altre nostalgie a venire.
Siamo forse a un punto di snodo, però: le piazze, trasformate in luoghi di transito e commercio, tornano a essere luoghi antropologicamente densi di significato. Indipendentemente dall’esito delle proteste degli indignados di turno.
Riusciremo a mantenere una capacità di “fare luogo” quanto più non rinunceremo a vivere. A vivere, ossia a creare un futuro individuale, a incontrare gli altri, e con questi altri costruire un avvenire comune.

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