Welfare
Ancona, lo sbarco degli uomini ventosa
L'avventura dei clandestini che arrivano nel porto marchigiano
di Redazione
Li chiamano così perché arrivano da Est, passando per la Grecia, aggrappati ai pianali dei Tir. Viaggiano così perché non si possono permettere di pagare nemmeno il viaggio all’interno dei camion. Nel 2009 la polizia ne ha contati 1.500. In gran parte sono stati rispediti indietro. Ma tanti riescono a sfuggire a conteggi e controlli
Welcome to Ancona. Lo slogan pubblicitario campeggia davanti alla banchina riservata alle navi da crociera. È lì dal 2005. Ma oggi sembra uno scherzo di cattivo gusto. Il capoluogo marchigiano più che città del benvenuto, sta diventando la capitale del “respingimento”. Le stime dicono che la “remissione attiva” verso la Grecia tocca a nove migranti su dieci tra quelli sbarcati nello scalo nascosti nei tir che giungono da Igoumenitsa e Patrasso, grazie ai tre collegamenti quotidiani gestiti dai vettori Anek, Minoan e Superfast. E i numeri relativi agli sbarchi danno una dimensione al dato. Lo scorso anno sono stati 1.497 i migranti irregolari scovati dalla Polizia di frontiera nel porto di Ancona. E nei primi tre mesi di quest’anno superano già i 300. Ma è probabile che siano più del doppio i transiti effettivi, considerando quelli sfuggiti ai controlli. Per metà si tratta di afghani, poi vengono gli iracheni, i palestinesi e i curdi.
Scalpore aveva suscitato, lo scorso anno, il caso del dodicenne afghano Alidad Rahimi. «Abbiamo fatto delle verifiche», spiega il dirigente della Polizia di frontiera dorica, Mario Sica, «e a noi non risulta affatto che sia mai sbarcato ad Ancona». La pensano diversamente all’Ambasciata dei diritti, una ong che si occupa dell’assistenza legale ai migranti: «A Patrasso», dice Valentina Giuliodori, «abbiamo conosciuto tre minorenni che dicevano di essere stati respinti da Ancona, in tre momenti diversi. Ci hanno fornito nominativi e date, una descrizione puntuale di posti e situazioni del porto, di tutte le procedure cui sono stati sottoposti. Abbiamo chiesto conto di questi minori al Cir. Ci hanno risposto che il loro passaggio non risultava». «A volte», spiega l’avvocato Sandra Magliulo del Cir di Ancona, «il rintraccio avviene a ridosso della partenza della nave e non riusciamo neppure a convocare l’interprete. Da tempo chiediamo un centro all’interno del porto, dove poter espletare con calma tali pratiche».
Nel 2009 i richiedenti asilo accolti sul territorio sono stati 65 e 60 i minorenni non accompagnati. Per questi ultimi la tappa successiva sono le case di prima e seconda accoglienza del Comune. Dalle quali uno su due fuggirà. Gli adulti, invece, vengono trasferiti nella struttura di Arcevia. Sulla carta è un centro d’accoglienza, dove l’immigrato dovrebbe sostare per il solo tempo necessario ad essere riconosciuto e individuato. In realtà ricopre le specifiche funzioni di un centro per richiedenti asilo (Cara). La capienza massima è di 100 posti. Gli ospiti sono stati 290 nel 2008 e 153 lo scorso anno. Attualmente sono 67, pressoché tutti uomini, una donna e un nucleo familiare. Hanno fra i 20 anni e i 30 anni e sono afghani, iracheni, pakistani, persino ghanesi. Consumano il loro tempo nell’attesa più snervante. Scandita dai pasti e dal sonno, dagli incontri con gli avvocati del Cir e dai viaggi a Senigallia, due volte alla settimana, per seguire il corso di italiano. Un’attesa – quella del riconoscimento dello status di rifugiato – che può durare anche mesi, talvolta anni. Dettata dai meccanismi elefantiaci e paradossali della burocrazia italiana. Che li esaspera.
Alì viene dall’Iraq e ha poco più di 40 anni. Nel centro tutti lo rispettano. Conosce cinque lingue, era preside di una scuola media prima della guerra. Cammina per la sala appoggiandosi su una stampella. Un’esplosione gli ha fatto perdere la gamba destra. È stato in Inghilterra e in Austria. Ma è sempre dovuto ritornare ad Arcevia, perché le sue impronte sono state prese ad Ancona. Alì è un “Dublino vivente” dicono dal Cir, riferendosi al regolamento europeo “Dublino II” che lo costringe a rimanere in Italia fino all’espletamento della sua pratica burocratica.
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