Memoria
Anna Maria Atria: «Mia sorella Rita, settima vittima della strage di via D’Amelio»
La storia di Rita Atria è legata a quella del giudice Paolo Borsellino, ucciso dalla mafia 33 anni fa. Una ragazza di 17 anni, cresciuta in una famiglia mafiosa dalla quale prede le distanze decidendo di collaborare con la giustizia. Il suo ricordo nelle parole della sorella Anna Maria

Borsellino sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta…
Una frase che dice tutto, quella che ritroviamo nella lettera a firma di Rita Atria e che verrà ritrovata dopo la sua morte, avvenuta il 26 luglio del 1992, pochi giorni dopo la strage di via D’Amelio che il 19 luglio spezzò la vita del giudice Paolo Borsellino e dei suoi cinque agenti di scorta, Emanuela Loi (la prima donna a far parte di una scorta), Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Rita si può senza ombra di dubbio considerare la settima vittima di via D’Amelio, come la definiscono Giovanna Cucè, Nadia Furnari e Graziella Proto nel loro libro “Io sono Rita”, libro-inchiesta che ricostruisce la sua storia scomoda e tutto quello che, in trent’anni, non è mai stato cercato, chiesto, investigato, scritto. Un libro che tornerà sugli scaffali delle librerie entro la fine dell’anno, arricchito di nuove scoperte, ridando ancora più luce alla storia di una ragazza che, con la forza dei suoi 17 anni, denunciò la mafia del suo paese, Partanna, in provincia di Trapani, mettendo in mano al giudice Paolo Borsellino la sua vita. Una storia piena più di ombre che di luci, che aspetta ancora verità e giustizia, tanto che la stessa sorella e l’associazione antimafie “Rita Atria” hanno chiesto la riapertura delle indagini.
Al giudice Borsellino, Rita, si affida ribellandosi a un sistema mafioso al quale apparteneva il padre, che a un certo punto verrà ucciso, così come il fratello Nicola, inghiottito dalle lusinghe della droga.
Ha 17 anni, Rita Atria, quando prende il coraggio a due mani e accetta di entrare nel programma di protezione, trasferendosi a Roma sotto altra identità e vivendo l’ultima parte della sua vita praticamente da sola, in quell’appartamento nel quale il 26 luglio del 1992 metterà fine alla sua vita lanciandosi dal balcone. Non avrebbe retto la notizia della morte del giudice che l’aveva presa sotto le sue ali, così come farebbe un padre.
Rita Atria diventa suo malgrado il simbolo del coraggio. Una ragazza dolce, mite, amante della vita, che cresce protetta dalla sua famiglia, la sorella Anna Maria in modo particolare.
«Noi proveniamo da una famiglia, nella quale, nel 1985, mio padre, la cui affiliazione a Cosa nostra non è mai stata messa in dubbio, viene ucciso in un agguato. Io avevo 16 anni e Rita 11. Vi lascio immaginare. Nessuno nega niente» -racconta Anna Maria Atria – «ma l’affetto diventa il dramma che ci trasforma in orfane. Poi ci sono state tutte quelle dinamiche, mio fratello con la droga, quello che ha passato nostra madre, che dopo tanti anni mi hanno portato a rimettermi in gioco per fare testimonianza e memoria. Ringrazio sempre l’associazione antimafie “Rita Atria” e la sua vice presidente, Nadia Furnari, che hanno voluto tornare a parlare di lei portando avanti un vero e proprio lavoro di inchiesta che vuole fare luce sui dubbi che si hanno rispetto alla morte di mia sorella. Quale dubbio? Il fatto che Rita possibilmente non si sia uccisa, ma questa è un’altra storia».
Come vivevate la quotidianità di una realtà nella quale sapevate che vostro padre era affiliato a Cosa Nostra?
Io ero più grande e mia mamma mi teneva all’oscuro di tutto per proteggermi. Comunque, sino a quando mio padre non è stato ucciso conducevamo una vita uguale a quella di tutti gli adolescenti. Nel momento in cui è morto, la nostra vita è stata sconvolta. Io sono andata via a 19 anni perché mi sono sposata, ma mia madre ha cercato di proteggere Rita sino in fondo. E non sono stati certo facili quegli anni per lei, quando iniziò a entrare nella spirale della depressione.

Quali sono i ricordi più nitidi che ha di Rita?
In effetti non ne ho molti. Ricordo che giocavamo assieme, ma fondamentalmente era una ragazza quieta, con lei non si litigava mai, era una brava sorella, questo lo posso dire. Però, evidentemente, assorbiva tutto quello che vivevamo. Io ero quella che mia madre chiamava sempre per affiancarla nelle faccende di casa e aiutarla laddove serviva. Rita, la piccolina, era lì, guardava, ascoltava e metabolizzava. Quello che posso dire di mia sorella è che, quando mi sono sposata, sono andata via preoccupata perché lasciavo a lei l’accudimento di mia madre che, nelle fasi depressive, specialmente nei cambi di stagione, aveva bisogno di essere seguita con particolare attenzione, avere somministrate le medicine, anche essere portata in ospedale. Dopo il matrimonio, scesa in Sicilia, ho ritrovato una Rita diventata improvvisamente grande, anche se per me rimaneva sempre la piccola di casa. Una cosa che mi ha emozionato tanto fu una lettera ritrovata 20 anni dopo la morte di mia madre, evidentemente scritta prima che andasse sotto protezione, nella quale scriveva delle cose sulla mamma, ma rivolgendosi a me diceva: “Scusami se ogni tanto ti chiamavo mamma”.
Per l’esperienza che ha vissuto, la Sicilia per lei che tipo di realtà rimane?
So bene che la Sicilia non è tutta così come l’ho vissuta ma, all’inizio, non volevo ritornare nella mia terra perché era troppo doloroso. Ora, non dico che oggi per me sia diverso, ovunque metta piede i ricordi mi assalgono. Ci tengo, però, a sottolineare che io sono andata via solo perché mi sono sposata, non sono scappata come qualcuno ha affermato.
Secondo lei, Rita sapeva che il suo era un destino segnato?
Credo che lei sapesse che doveva morire perché ormai, essendo sotto protezione, lo temeva. Diceva che voleva seguire i suoi angeli, per lei nostro padre e nostro fratello. Certo, siamo figli di mafiosi, è vero, ma ci siamo schierate, l’ho fatto anch’io perché, per anni, mi sono sentita come se avessi la lettera scarlatta marchiata addosso. Il destino di Rita è stato segnato anche dalla sorte di mio fratello travolto dal mondo della droga, per la quale è stato ucciso. Ciò che ci ha fatto ancora più male, dopo la morte di mio padre e di mio fratello, è essere state considerate anche noi mafiose. Se lo fossimo state e se avessimo spacciato droga come mio fratello, il nostro tenore di vita sarebbe stato certamente diverso.
Cosa le manca più di tutto di Rita?
Indubbiamente la sua presenza. Quando l’ho lasciata, lo dicevo prima, era piccola, ma ogni volta che tornavo ritrovavo sempre di più una ragazza responsabile e matura. Certo, la vorrei ancora qui, ma sono tanto orgogliosa di lei.
Come ricorda oggi la storia di Rita quando incontra i giovani?
Quando racconto la sua storia, i ragazzi si mettono a piangere. Piangono per quello che trasmetto a loro, perché sentono il mio dolore e lo condividono con me. Li guardo e li vedo come se fossero i miei figli. Racconto la storia di Rita per fare in modo che rimanga loro dentro ma, nel momento in cui si commuovono, allora sto male io, dico loro che non voglio che soffrano. Una volta, su invito di una scuola per parlare come faccio da anni di antimafia e legalità attraverso la storia di Rita, la preside mi disse: “Anna, abbiamo lasciato il segno, gli siamo entrati dentro”. Questo vuol dire che, anche se doloroso, il ricordo può tenere in allerta la nostra vita, ci aiuta a stare attenti a come ti approcci con determinate persone. Siccome la mafia purtroppo non perdona, se entri in suo contatto o fai il suo gioco, non ne esci più. Allora parlo ai ragazzi della bellezza che sta nella libertà.
Che valore hanno le commemorazioni? Oggi, per esempio, si ricorda Paolo Borsellino che, appunto, diceva che “la lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà”.
Sono importanti per non dimenticare chi ha avuto coraggio di affrontare la mafia. Mia sorella ha detto che “c’è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore”. Quando parlo ai ragazzi, racconto loro quanto è brutto essere dentro questo contesto e auguro loro di non entrare dentro un mondo che fa schifo. Cerco anche di fare capire che bisogna studiare perché la mafia si nutre anche dell’ignoranza. Ringrazio ancora una volta l’associazione dedicata a mia sorella. È grazie a loro se non sono da sola perché, quando non ti trovi nessuno accanto, allora è lì che diventi vulnerabile.
Nella foto di apertura, le donne della famiglia Atria. Da sinistra la madre Giovanna Cannova, Anna Maria e Rita Atria (la foto è stata fornita da Anna Maria Atria)
Nessuno ti regala niente, noi sì
Hai letto questo articolo liberamente, senza essere bloccato dopo le prime righe. Ti è piaciuto? L’hai trovato interessante e utile? Gli articoli online di VITA sono in larga parte accessibili gratuitamente. Ci teniamo sia così per sempre, perché l’informazione è un diritto di tutti. E possiamo farlo grazie al supporto di chi si abbona.