Non profit
bambini, uno spettro si aggira per l’europa
Il tribunale dei minori, fondato dai nazisti, impedisce ai figli di coppie miste separate di lasciare il Paese. Un principio che il mondo contesta. Finora inutilmente
di Redazione
Uno spettro si aggira per l’Europa: ha un nome difficile e un po’ inquietante; dovrebbe proteggere i bambini, ma per farlo non trova di meglio che portarli via a uno dei genitori. È lo Jugendamt, l’Ufficio per i minori tedesco, che probabilmente in Italia pochi conoscevano fino al 12 maggio, quando i giornali e le tv hanno raccontato la storia di Leonardo e Nicolò, due bambini di 10 e 6 anni prelevati dai carabinieri dalla loro scuola milanese senza poter salutare la madre e spediti in Germania, dal loro papà, per decisione proprio dello Jugendamt.
Il punto che rende sconcertante questo provvedimento, e che ha fatto collezionare al tribunale tedesco decine di denunce alle autorità europee e perfino all’Onu, è il principio secondo il quale l’interesse del minore tedesco si salvaguarda impedendo che lasci la Germania, fosse pure per stare con una mamma o un papà straniero. Incredibile? Non troppo, se si pensa che lo Jugendamt venne fondato nel 1939 da Heinrich Himmler, il teorico della tutela della razza ariana. Riformato negli anni 70 senza perdere il proprio enorme potere (è allo stesso tempo assistente sociale e magistrato, cioè analizza le situazioni familiari e decide su di esse), gode di una notevole autonomia. Attualmente, secondo le stime dell’europarlamentare polacco Boguslaw Rogalski, che ha presentato un’interpellanza contro le «pratiche xenofobe» dello Jugendamt, in Germania sarebbero “bloccati” 250 minori cui è impedito di frequentare uno dei genitori solo perché non tedesco. «Il governo tedesco ha organizzato il suo apparato per rispondere a un solo obiettivo: controllare il giudice dei minori per garantire che nessun bambino lasci mai il territorio», afferma in un documento ufficiale il Ceed-Conseil européen enfants du divorce, un’associazione di genitori, nonni e figli «vittime di sottrazioni internazionali di bambini». «Tutti i mezzi, anche i più disonesti, sono buoni per raggiungere il fine: decisioni unilaterali e segrete, falsificazione di documenti e di traduzioni, minacce, ricatti. In Germania un bambino è proprietà dello Stato».
Parole pesanti come macigni, che vengono tuttavia suffragate da decine di petizioni presentate a Strasburgo, al Consiglio d’Europa, alla Corte di Giustizia europea e perfino alle Nazioni Unite: lo scorso 2 febbraio l’Ufficio per i diritti umani di Ginevra ha esaminato il “caso Jugendamt”, raccomandando di introdurre «un sistema di efficace controllo giuridico sulle decisioni amministrative» dello stesso tribunale, «nell’interesse dei diritti dei bambini». «Nel caso di coppie bi-nazionali», si legge in una delle tanti petizioni presentate all’Europarlamento, «i contatti dei bambini con il genitore “straniero” vengono interrotti, anche con misure umilianti. Vengono stabilite anche misure penali, se il genitore non tedesco oppone resistenza». Come è accaduto, per tornare in Italia, alla madre di Giacomo e Nicolò, la 47enne Marinella Colombo, colpita da un mandato di arresto internazionale spiccato dalle autorità tedesche dopo la decisione dello Jugendamt di negarle il permesso di portare i figli in Italia. Il capo d’accusa? Sconosciuto, visto che quando venne emanato il mandato i figli della signora erano in Germania, tra l’altro a casa del padre. «Succede spesso», spiegano dal Ceed, «che si emettano condanne penali “a titolo preventivo”, o anche mandati di arresto internazionali, senza ragioni obiettive». Che fare? «Il conflitto tra Germania e istituzioni comunitare non può essere risolto in sede giudiziaria», spiega Silvia Buzzelli, docente di Procedura penale europea all’università di Milano. «Si solleverebbe una questione di sovranità nazionale. Dovrebbe intervenire la politica».
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