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Benvenuti al seminario di Prizen, dove si studia sotto scorta

di Redazione

Si chiama Strachinja S., ha 15 anni, capelli lunghi ed occhiali, e al secondo piano del convitto, tra il pranzo dell’una in punto e la messa delle sei, sta strimpellando Sultans of Swing alla chitarra. Senza espressione spensierata, ha comunque la faccia felice, lo sguardo deciso che possiede solo chi sa davvero cosa sta facendo e perché. Strachinja è nato a Pristina, ex città multietnica ed oggi capitale monoetnica dello Stato kosovaro, ma con i suoi genitori, assieme a 250mila serbi durante la guerra del 1999, è stato evacuato a Belgrado. Ma ha deciso di tornare indietro nella regione serba in cui è nato, diventata poi Stato indipendente. Strachinja a Belgrado aveva un gruppo musicale: ognuno degli undici allievi del seminario di Prizren ha qualcosa che si è lasciato indietro, a casa. Ma Dejan S., Sasha R., Stefan I., Nicola R., Aleksandr G., Vyksan K., insieme con gli altri studenti del seminario serbo ortodosso, hanno deciso di venire a studiare qui, nel cuore meridionale di un Kosovo celebrato da quella scritta “new born” che ha commosso il mondo davanti alla tv, un Kosovo che ha cacciato dalla sua nascita il 70% della popolazione non albanese, sotto gli occhi silenziosi e le mani inermi delle forze Nato, ancora presenti sul territorio, nella base americana più grande d’Europa, camp Boundstill.
Prima della guerra al seminario di Prizren, paesino tradizionalmente multiculturale, quando serbi ed albanesi solcavano gli stessi otto ponti per attraversare da un lato all’altro la città, si contavano duecento studenti. Ma proprio come a Klina, Istok e Pec, durante e soprattutto dopo la guerra, la presenza serba è stata quasi del tutto eliminata.«In questa città c’era una comunità di 9mila serbi: ora siamo in 14. Undici allievi e tre professori. È importante che i ragazzi che studiano qui siano nati in Kosovo, così lo Stato non potrà appellarsi ad altre scuse, come molte altre ne sono state trovate, per espellere i serbi dalle loro terre», racconta padre Andrej, docente e direttore del seminario.

La contropulizia etnica
Il fallimento della protezione: la violenza contro le minoranze in Kosovo: questo il titolo del dossier dell’Human Right Watch che denuncia il fallimento totale dell’Unmik e della Kfor nei giorni delle marce di marzo 2004, quando venne appiccato il fuoco contemporaneamente in 33 cittadine serbe del Kosovo. Come scrisse allora Rachel Denberg, «i peacekeepers della Nato si sono barricati nelle loro basi, restando a guardare mentre le case dei serbi bruciavano». Si consumò nel pressoché totale silenzio stampa internazionale la contropulizia etnica del 2004, quando, dal 17 al 20 marzo 2004, le mani dei kosovari radicali di etnia albanese, armate di kalashnikov e fiaccole, diedero fuoco a case, chiese, monasteri ortodossi risalenti al XII secolo. Solo a Prizren le chiese che bruciarono furono 16. Anche al seminario, fondato nel 1871, venne appiccato il fuoco. Andò distrutto. E in parte lo è ancora, ma i lucchetti ai cancelli sono stati tolti da pochi mesi, per riallacciare, di nuovo da zero, sotto la scorta della polizia, la tradizione interrotta. Perché questo è il più antico seminario dell’ortodossia serba dopo quello di Belgrado ed oggi è, come lo ha definito il vicario di Sretensky, «una prodezza del popolo, un piccolo castello nel mondo non cristiano».
È accaduto qui quello che è accaduto a Pristina, dove da 14mila i serbi sono diventati 40. «Ora dipendiamo dall’aiuto di chi ci ha bombardato, ora bisogna comportarsi come se tutto fosse normale», dice padre Andrej. Normale, nonostante in parlamento siedano membri del movimento Vetvendosje, “autodeterminazione”, che mira alla pulizia etnica totale del Kosovo dalle popolazioni non albanesi. «Siamo serbi, siamo i cattivi del film e secondo la gente comunque ce lo meritiamo», dice padre Andrej. Quando nel 2004 padre Herinton venne torturato, ucciso e decapitato dall’Uck. la notizia ebbe poco risalto. Il suo cadavere fu trovato nei dintorni di Pristina. Di padre Stefan, invece, anche lui scomparso allora, non è mai stato trovato il corpo.
Secondo il bilancio attuale, sono 2mila i serbi ammazzati negli ultimi cinque anni.

Gli errori degli altri
«Il disastro avverrà se non ci saranno neppure piccole comunità attorno ai luoghi sacri. Molti serbi che hanno abbandonato le loro case in Kosovo non torneranno mai indietro: se i figli vanno a scuola in Serbia, non devono chiedersi ogni giorno se torneranno a casa sani e salvi. Se poi, per quelli che sono rimasti, aggiungi all’insicurezza delle proprie vite anche la povertà, ci vuole solo quello che si chiama “ottimismo cristiano”. Ma per quanti altri anni dovremmo pagare per gli errori degli altri?», si chiede padre Andrej. È la conseguenza dimenticata della Guernica balcanica che insanguinò l’ex Yugoslavia.
Sono undici, proprio come in una squadra di calcio. E giocano a pallone nei dieci metri di cortile di fronte alle aule, un mondo che finisce nel recinto delle mura: «Uscendo gli allievi del seminario non rischiano solo ingiurie, ma la sopravvivenza, e quando dico sopravvivenza, lo intendo letteralmente», dice Andrej. Un’adolescenza in 300 metri quadri, o forse meno, che ricorderanno per istantanee. Sorridono e sembra proprio una partita normale. Ma poi le innumerevoli moschee richiamano alla preghiera con altoparlanti nuovi di zecca provenienti dalla Turchia. E i poliziotti di guardia al seminario sanno che è ora di darsi il cambio.

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