Welfare

Benvenuti all’Hotel San Paolo, il nostro limbo tra l’immondizia

Le voci dei profughi nel degrado di un ex ospedale torinese

di Redazione

Arrivano da Etiopia, Sudan, Somalia. Scappano da persecuzioni politiche e guerre. In attesa del riconoscimento dello status di rifugiati, non possono lavorare né muoversi. Vivono ammassati in 300 in un edificio in rovina con due soli rubinetti. E nel quartiere dove stanno per trasferirli c’è già chi ha fondato un comitato contro…
Loro sono circa trecento giovani donne e uomini ma anche bambini, neonati o di pochi anni, che provengono dall’Etiopia, dal Sudan e dalla Somalia e che sono sbarcati in Italia dopo lunghi viaggi attraverso il deserto e il mare, in fuga da persecuzioni politiche e da guerre.
Dal punto di vista legale si trovano in una sorta di limbo in cui si attende la concessione dello status di rifugiato ma non si ha il permesso di spostarsi, di lavorare, di avere una residenza, e soprattutto, non è più possibile tornare indietro al Paese d’origine. Dopo essere sbarcati a Lampedusa, attraverso una complessa rete di rapporti, cirocostanze fortuite e passaparola sono arrivati a Torino, dove hanno trovato “accoglienza” nella ex Casa di cura San Paolo, nell’omonimo quartiere torinese.
Ora nel cortile, sparsi qua e là, ci sono ogni sorta di rifiuti, ruote di bicicletta e pezzi di materassi. La luce è presente solo su due piani e l’acqua corrente si ha, per tutti i trecento inquilini, bambini compresi, da due rubinetti. Un gruppo di ragazzi è in piedi, al buio, intorno a un tavolo, a dividere un unico piatto, che potrebbe essere couscous, ma è difficile a dirsi. L’impressione è quella di essere scesi in un sottosuolo, lontano dal mondo di luci metropolitane.

Voci dal sottosuolo
In una delle stanze ci sono tre materassi per terra, accanto ad una pozza di acqua riempita da gocce che scendono dall’alto. Sopra uno dei materassi si è sbriciolato un pezzo di soffitto. «Stanotte dormivo», mi spiega uno dei ragazzi, «e mi è caduto addosso. Così dormiamo noi».
Un giovane dal bel volto incorniciato dai dread locks alla Bob Marley racconta, in un ottimo italiano: «Sono in Italia da un anno e mezzo. Io studiavo, andavo all’università in Etiopia, avevo una famiglia, non sono venuto qui per motivi economici. Non mi manca il cibo, sono sano, sono giovane, ho un cervello. Non riesco a capire come uscire da questa situazione che non è umana, non riesco a vedere la luce per il mio futuro». Ha 26 anni ed ha creduto di poter cambiare il proprio Paese attraverso l’attivismo politico:
«Da noi c’è la guerra. Io ho fatto opposizione politica, mi hanno minacciato di mettermi in prigione, o di farmi sparire. Sono scappato, sono andato in Sudan, ho attraversato il Sahara con l’autobus, fino alla Libia, sembrava ogni volta di morire. Ci siamo fatti coraggio a vicenda, è un viaggio lunghissimo, ma peggio del deserto è il mare. Ho preso la nave. Costava 8mila euro. Eravamo tutti schiacciati sul ponte, per tante ore, 24 ore. Quando ho visto la terraferma da lontano ho pensato di avercela fatta, di essere vivo, di poter cambiare la mia vita. Non sapevo che avrei vissuto così. Non l’ho detto ai miei genitori, mi vergogno di come vivo qui».
Nelle ultime elezioni in Etiopia nel 2007 è stato riconfermato il presidente in carica Girma Woldegiorgis, nonostante l’opposizione abbia preso l’80% dei voti. Forte del sostegno delle campagne, il capo della Repubblica Federale Democratica d’Etiopia ha soffocato ogni forma di opposizione, uccidendo gli studenti scesi in piazza dopo le elezioni e disperdendone e imprigionandone i leader politici.
«Se mi rimandano in Etiopia, io sono un uomo morto. Ho bisogno che vengano riconosciuti i miei diritti: vivere in una casa, potermi lavare, poter mangiare e dormire come tutti gli altri. Mi vedono diverso, ma io sono uguale a tutti i bianchi, anche a me fa schifo dormire per terra in mezzo alla sporcizia, qui è peggio che nel mio Paese. Sto qui, aspetto, chissà quanto devo ancora aspettare prima di poter iniziare a vivere».
Un altro giovane etiope racconta: «La prima cosa che mi hanno fatto quando sono sbarcato, è stata prendermi le impronte digitali. Io sono un criminale, per l’Italia. Se non ho fatto ancora niente, non importa, magari, pensano, lo farò».

Calvario senza fine
I profughi sono convinti di aver sperimentato sulla propria pelle una vera e propria violazione della dignità: dall’essere immediatamente schedati al non poter esercitare alcune libertà, tra cui quella di lasciare l’Italia alla volta di altri Paesi europei, al vivere, crescere bambini, ammalarsi, in mezzo a rifiuti e sporcizia, nel più completo abbandono; i nuclei familiari dividono la stanza con altri estranei, magari di etnia diversa, col grosso rischio di risse e tensioni tra gli stessi occupanti. Spesso l’alcool, soprattutto per i più giovani, sembra un buon ripiego, ma diventa un ulteriore motivo di conflitto.
La discesa agli inferi comunque non è ancora finita. Nell’attesa del riconoscimento dello status di rifugiato, i migranti saranno probabilmente spostati dalla ex casa di cura ad una ex caserma, in una zona ricca della città, dove i residenti hanno già provveduto a creare un comitato “No profughi”.
Così, tra un censimento e un presidio davanti al Comune, tra l’arrangiarsi e il farsi forza, tra vedere crollare addosso soffitti e mangiare al buio, in silenzio, l’attesa nel limbo continua, assieme alla consapevolezza di essere fuggiti da un inferno per approdarne ad un altro, sconosciuto, diverso, ma pur sempre inferno di cui non si vede la via d’uscita.

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