Mondo
Biglietto di sola andata per i ragazzi ventosa
Una giornata a Tangeri, tra i baby-migranti in fuga
di Redazione
Giovani, giovanissimi,
a volte bambini.
Con obiettivo la Spagna,
dove non possono essere respinti in quanto minorenni. Attraversare quel tratto di mare per loro è la partita decisiva. E sono pronti ad affrontarla anche aggrappandosi a un tir
Gruppi di ragazzini dai volti sporchi di fuliggine aspettano solo che scatti il rosso al semaforo. Sono pronti, accanto a uno dei tanti incroci sul lungomare di Tangeri. Un tir si ferma allo stop, inizia un parapiglia. Con maestria e incoscienza si sdraiano al suolo, tentando di aggrapparsi alla pancia del camion. Così cercheranno di arrivare in Spagna, a bordo dei traghetti diretti ad Algeciras. Qui l’immigrazione minorile continua ad essere un’emergenza. Il 70% dei minorenni non accompagnati accolti in Spagna nel 2008 viene dal Regno del Marocco (dati del ministero del Lavoro spagnolo). Chi ha meno di 18 anni non può essere respinto. E allora in tanti, costretti dalla fame, continuano a provarci, affrontando viaggi orribili, dopo aver percorso centinaia di chilometri per arrivare, anche a piedi, a Tangeri, la città da sempre amata da artisti e poeti. Abbiamo trascorso assieme a loro un pomeriggio e una nottata.
La stessa scena si ripete in altri punti del’affollata Avenue d’Espagne, come nel quartiere di Bni Makada, i cui incroci sono presi d’assalto da ragazzini in fuga. C’è anche chi tenta di aggrapparsi ai tir direttamente dentro il porto. Nelle piazzole di rimessaggio, dove si entra pressoché indisturbati, è facile imbattersi in bambini appiattiti sotto gli assi dei camion che aspettano solo di essere caricati a bordo delle navi dirette ad Algeciras. Galag, un giovane agente addetto alla sicurezza, ci fa capire di essere costretto a far finta di niente quando li vede sgattaiolare fra i tir. Sono troppi. Un altro poliziotto ci racconta di vederne partire ogni giorno a decine. Ci spiega che per sfuggire ai controlli alcuni si infilano una busta di plastica in testa. Il rischio di rimanere soffocati è alto, ma la polizia di frontiera spagnola è dotata di un apposito strumento per rilevare il respiro. E allora meglio isolarsi il volto. Non di rado qualcuno cadendo subisce gravi amputazioni, o perde la vita.
Si avvicinano altri giovanissimi. Hanno gli occhi vuoti e gonfi. Il loro sguardo è attraversato da una infelicità deforme. Otman, la nostra guida, ci spiega che molti lì sniffano solventi chimici tutto il giorno, per anestetizzare la fame e frastornarsi. Dai tetti della fabbrica si affacciano delle teste. Anche lassù accampano degli harraga, dei migranti. Dall’altra parte della strada, sul lato della Medina che dà verso il porto, è un continuo agitarsi di presenze. Dei ragazzi, a cavalcioni di mura diroccate, come vedette studiano le partenze delle navi. Saliamo e ci imbattiamo subito in un gruppo di marocchini. Qui, ci spiegano, tutti si scambiano informazioni su come partire. Fra loro c’è anche un ghanese, Julius. Ha viaggiato attraverso Nigeria, Niger e Algeria. Vive con altri trenta migranti in un fatiscente appartamento della città. Ma quando gli chiediamo se ci può portare a visitarlo scuote il capo: «No, è troppo pericoloso».
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