Mondo

Biglietto di sola andata per i ragazzi ventosa

Una giornata a Tangeri, tra i baby-migranti in fuga

di Redazione

Giovani, giovanissimi,
a volte bambini.
Con obiettivo la Spagna,
dove non possono essere respinti in quanto minorenni. Attraversare quel tratto di mare per loro è la partita decisiva. E sono pronti ad affrontarla anche aggrappandosi a un tir
Gruppi di ragazzini dai volti sporchi di fuliggine aspettano solo che scatti il rosso al semaforo. Sono pronti, accanto a uno dei tanti incroci sul lungomare di Tangeri. Un tir si ferma allo stop, inizia un parapiglia. Con maestria e incoscienza si sdraiano al suolo, tentando di aggrapparsi alla pancia del camion. Così cercheranno di arrivare in Spagna, a bordo dei traghetti diretti ad Algeciras. Qui l’immigrazione minorile continua ad essere un’emergenza. Il 70% dei minorenni non accompagnati accolti in Spagna nel 2008 viene dal Regno del Marocco (dati del ministero del Lavoro spagnolo). Chi ha meno di 18 anni non può essere respinto. E allora in tanti, costretti dalla fame, continuano a provarci, affrontando viaggi orribili, dopo aver percorso centinaia di chilometri per arrivare, anche a piedi, a Tangeri, la città da sempre amata da artisti e poeti. Abbiamo trascorso assieme a loro un pomeriggio e una nottata.

Al capolinea della speranza
C’è chi viaggia di nascosto e chi, denaro alla mano, si mette d’accordo con gli autisti. Mohamed è seduto insieme ad una decina di ragazzi su un muretto della Avenue d’Espagne, il lungomare cittadino. Ha 22 anni. Appena un tir si ferma a un semaforo rosso, scatta in piedi e insieme a cinque amici cerca di afferrarsi alle assi dell’automezzo, ma non ci riesce e torna indietro sconsolato. «Voglio andare in Spagna», spiega Mohamed. «Lì c’è lavoro nell’edilizia». Uno dei ragazzini intorno a noi ha la faccia da bambino. Si chiama Mustafà, dice di avere 16 anni, ma ne ha soltanto 11. Lo scopriamo chiedendolo ad altri ragazzi. Viene dal Sud, ha percorso più di 100 chilometri per arrivare a Tangeri e tentare il suo salto verso l’Europa. Poi d’improvviso, mentre stiamo parlando, tutti si nascondono dietro il muretto del lungomare, per riapparire dopo pochi minuti. È appena passato un poliziotto in borghese, ci spiegano. «Molto spesso», raccontano i ragazzi, «gli agenti ci picchiano e ci maltrattano. Dobbiamo dar loro dei soldi, se li abbiamo, per tenerli buoni».
La stessa scena si ripete in altri punti del’affollata Avenue d’Espagne, come nel quartiere di Bni Makada, i cui incroci sono presi d’assalto da ragazzini in fuga. C’è anche chi tenta di aggrapparsi ai tir direttamente dentro il porto. Nelle piazzole di rimessaggio, dove si entra pressoché indisturbati, è facile imbattersi in bambini appiattiti sotto gli assi dei camion che aspettano solo di essere caricati a bordo delle navi dirette ad Algeciras. Galag, un giovane agente addetto alla sicurezza, ci fa capire di essere costretto a far finta di niente quando li vede sgattaiolare fra i tir. Sono troppi. Un altro poliziotto ci racconta di vederne partire ogni giorno a decine. Ci spiega che per sfuggire ai controlli alcuni si infilano una busta di plastica in testa. Il rischio di rimanere soffocati è alto, ma la polizia di frontiera spagnola è dotata di un apposito strumento per rilevare il respiro. E allora meglio isolarsi il volto. Non di rado qualcuno cadendo subisce gravi amputazioni, o perde la vita.

L’attesa in strada
Abbandonati, soli, affamati. I bambini di Tangeri aspettano il loro tir per l’Europa dormendo in strada, nascosti negli angoli più diroccati della città. Frugano nella spazzatura alla ricerca di cibo oppure mangiano gli avanzi lasciati dai turisti sui tavoli dei bistrot. Attendono di partire, accasciati all’ombra di una vecchia fabbrica di tessuti di fronte alle banchine del porto. Ahmed è uno di loro, spunta da un cespuglio di fiori gialli, solari, crudelmente indifferenti a tutta quella miseria. Ha un occhio chiuso e tumefatto. Racconta di essere nato nel Sahara Occidentale. Parla l’italiano, è stato sette anni ad Alessandria, da irregolare, ora ha 21 anni ma quando partì ne aveva solo 13. Poi è finito in Francia, e da lì l’hanno rimandato in Marocco. Quindi ha tentato di tornare in Europa altre due volte. Ma dalla Spagna l’hanno sempre respinto. Vuole arrivare in Italia: «Mi butto dentro un tir, l’autista neanche mi vedrà. Mi porto dietro da mangiare e non mi fermo né in Spagna né in Francia, sennò mi rimandano indietro».
Si avvicinano altri giovanissimi. Hanno gli occhi vuoti e gonfi. Il loro sguardo è attraversato da una infelicità deforme. Otman, la nostra guida, ci spiega che molti lì sniffano solventi chimici tutto il giorno, per anestetizzare la fame e frastornarsi. Dai tetti della fabbrica si affacciano delle teste. Anche lassù accampano degli harraga, dei migranti. Dall’altra parte della strada, sul lato della Medina che dà verso il porto, è un continuo agitarsi di presenze. Dei ragazzi, a cavalcioni di mura diroccate, come vedette studiano le partenze delle navi. Saliamo e ci imbattiamo subito in un gruppo di marocchini. Qui, ci spiegano, tutti si scambiano informazioni su come partire. Fra loro c’è anche un ghanese, Julius. Ha viaggiato attraverso Nigeria, Niger e Algeria. Vive con altri trenta migranti in un fatiscente appartamento della città. Ma quando gli chiediamo se ci può portare a visitarlo scuote il capo: «No, è troppo pericoloso».

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