Non profit
Bilanci più “sexy”?una provocazioneche fa discutere
Rendicontazione sociale Un forum di Vita Consulting
di Redazione

«Facciamo i bilanci sociali, li facciamo bene, ci lavoriamo tanto, e per voce abbastanza unanime, nessuno li legge». Esordisce così Paolo d’Anselmi per sollecitare il tavolo dei responsabili Csr che hanno risposto alla convocazione di Vita Consulting. La sollecitazione del resto è del tutto omogenea al tema del workshop: Comunicare attraverso il bilancio sociale: fare e far sapere, produrre ed ascoltare. «La domanda è: si può fare informazione interna, tirare fuori qualche numerino un pochino più sexy e più interessante?», ha incalzato ulteriormente D’Anselmi. Il dibattito non ha fatto nessuna fatica a decollare.
«Non è questione di quantità o di appeal», ha risposto subito Sebastiano Renna, di Granarolo. «L’importante è che gli interlocutori siano consapevoli e in grado di metterci in difficoltà. il problema non è quante persone leggono il bilancio sociale ma quali».
Di opposto avviso Alessandro Magnoni di Coca Cola. Che ha lancia un gioco per rispondere alla domanda: perché facciamo un bilancio sociale. E intanto risponde lui: «A: per soddisfare un’esigenza del top manager? Probabile. B: per dare una giustificazione ai nostri uffici? Probabile. C: il mio consumatore ideale leggerà il mio bilancio sociale? Mai!». Sabina Ratti invece è convinta della valenza culturale dei bilanci sociali. «Almeno per Eni», spiega «è stata un’operazione fortemente culturale all’interno dell’azienda. Cioè la scommessa della sostenibilità in Eni è stata entrare nei processi della pianificazione aziendale e all’interno dei processi di pianificazione con dei budget di controllo e di reporting. Questo è il grosso valore aggiunto. Il bilancio è la punta dell’iceberg di tutto questo processo ma realmente è più lo sforzo fatto all’interno che quello esterno». Conlusione: «Sono d’accordo con D’Anselmi su quasi tutto tranne che sul punto che nessuno li legge e che li dobbiamo semplificare. Ha già detto benissimo Renna, non è questo il senso dell’operazione».
Paolo Nazaro, di Telecom, mette sul tavolo anche un limite congenito allo strumento: «È molto difficile trovare uno strumento che sia immediatamente adattabile a tutti i possibili stakeholder». Poi Nazaro sottolinea il rischio di involuzione: «Vedo un po’ di stanchezza verso il reporting di tipo meramente retrospettivo, cioè verso una fiera delle belle intenzioni, verso la vetrina di tutto quello che le aziende hanno fatto nel corso dell’anno. Nel reporting di sostenibilità è importante assumersi anche degli impegni chiari e misurabili. In Telecom lo stiamo già facendo da un paio d’anni». A Hera, la multiutility bolognese, invece hanno scoperto una dato sorprendente, come ha raccontato Gianluca Principato: «Da un’indagine fatta l’anno scorso è emerso che il 70% dei nostri dipendenti ha dichiarato di leggere il bilancio di sostenibilità. Probabilmente siamo arrivati a questi risultati lavorandoci molto. Probabilmente il bilancio sociale di per sé non è che garantisca una diffusione e una lettura. Non basta solo fare il bilancio ma bisogna anche presentarlo, renderlo vivo». Quindi non è questione di contenuti sexy?
Completamente d’accordo è Amedeo Tartaglia di Wind: «Non credo che mettendo contenuti sexy sui bilanci si vadano a leggere meglio. Verrano letti solo i contenuti sexy e quindi tutto il resto lo lascerebbero. Invece il dato di interesse e di valore vero è capire quanto l’azienda decida di impegnarsi su certi temi e perché decida di farlo». Cristina Catellani, di Roche Diagnostic, pone invece il tema della coerenza interna: «Inutile proporre documenti di 200 pagine che hanno riscontri solo da chi ha una motivazione legata al business. Invece cambierei la strategia di comunicazione. Direi a tutti nostri stakeholder che c’è la possibilità di sapere tutto quanto di noi nell’ambito sociale vedendo il bilancio di esercizio su Internet».
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