Non profit
Business plan, innovazione, investimenti di lungo periodo. La filantropia cambia faccia ed entra nell’era della sostenibilità economica
di Redazione

La vita non è un lungo fiume tranquillo. E non è un film, nel quale a una causa segue un effetto. È molto più complicata. Nemmeno fare del bene è semplice, come sa chi è impegnato nella filantropia: non è detto che a contributo segua risultato. Proprio per risolvere questa difficoltà è nata, negli States una ventina di anni fa, la venture philanthropy. Che parte da due – assai pragmatiche – intuizioni. Da una parte una grande attenzione all’innovazione; dall’altra un diverso modo di relazionarsi con l’organizzazione che si sceglie di sostenere.
Un atteggiamento imprenditoriale
«La venture philanthropy», spiega uno dei pionieri in Italia di questo approccio, Luciano Balbo, presidente di Oltre Venture, «assume un atteggiamento decisamente più imprenditoriale e proattivo, dando un contributo molto puntuale alla non profit». Non si eroga solo, si accompagna; non si controlla, si sostiene. E ci si coinvolge, mettendo a disposizione saperi manageriali, competenze organizzative, attenzione al monitoraggio.
Una impostazione che, nel suo insieme, punta a migliorare quella che gli esperti definiscono la “capacity building” delle non profit. Scommettendo sulla loro capacità di perfezionare l’efficienza perché le iniziative siano più efficaci e sostenibili nel tempo.
Ma quanto è diffuso nel Belpaese questo approccio? «Se ne discute molto», risponde Balbo, «ma da noi ha avuto un effetto vocazionale, cioè ha spinto molti a interrogarsi, ad abbracciare, più che l’impostazione complessiva, alcuni concetti».
Molti pro, alcuni dubbi
Insomma, alla venture philantropy è stata riservata, fin qui, un’attenzione selettiva. Che ha prodotto esiti diversi. Da una parte ha spinto verso una contaminazione nelle pratiche («Ci sono iniziative di alcune fondazioni che potrebbero essere ricondotte ad essa, ma che non sono nominate così», ammette Giorgio Righetti, direttore dell’Acri). Dall’altra verso una elaborazione ? magari anche critica ? di alcune intuizioni. «L’impatto sociale che il volontariato genera sul territorio», esemplifica Righetti, «non solo l’erogazione di un servizio. È cittadinanza attiva, partecipazione, cultura della solidarietà».
«Accanto agli aspetti positivi», gli fa eco Gian Paolo Barbetta, docente di Politica economica alla Cattolica e responsabile dell’Unità strategia per la filantropia della Fondazione Cariplo, «la venture philanthropy ne ha anche di negativi. Ad esempio, se ci si concentra troppo sul misurare la singola organizzazione c’è il rischio di perdere di vista l’efficacia degli interventi: il punto vero da considerare è il cambiamento della situazione di partenza».
Non è detto che accada… E tuttavia l’obiezione è seria, come pure l’altra, sempre espressa da Barbetta: «L’enfasi sulla sostenibilità può condurre a concentrarsi su beni e servizi da mettere sul mercato, cioè rivolti a una domanda pagante. E quella fascia di popolazione che non ha le risorse? Molti servizi sono necessari ma non sostenibili. Poi non è pensabile che il non profit italiano riesca a subentrare a uno Stato che si ritira. Almeno non da noi. Non con questa pressione fiscale».
La via italiana
Già. L’Italia non è l’America, e quel che funziona oltre Atlantico può aver bisogno di una declinazione che interpreti. «L’approccio venture philanthropy può garantire un accompagnamento che va oltre i limiti temporali che normalmente caratterizzano un bando. E quindi può essere un mezzo in più», spiega Righetti. Non è semplice però conciliare questi due strumenti: il primo che mira al sostegno della organizzazione, il secondo che invece punta ai progetti. Nel primo caso ti occupi di chi fa, nel secondo la tua attenzione è su cosa si fa. Come rendere complementari questi approcci? «Quando si crea una fondazione di comunità, come hanno fatto la Fondazione Cariplo o la Fondazione con il Sud», risponde il direttore di Acri, «si va già oltre la logica del bando: è un soggetto che prima non c’era nel territorio e che in qualche modo lo riattiva». Come a dire che l’empowerment locale potrebbe essere la via italiana della venture philanthropy. Rispetto alla quale sono in corso anche altre sperimentazioni interessanti. La Fondazione CRT, ad esempio, ha costituito la Fondazione Sviluppo e Crescita CRT, un soggetto autonomo con il quale sta realizzando “Torino Sharing” (articolo a pag. 5), ed è socia, assieme fra gli altri a Oltre Venture, di PerMicro, società di microcredito che affianca i neo imprenditori nella definizione del business plan e nello start up dell’attività.
Per quanto positive, queste esperienze non fanno primavera. Perché questo approccio possa diffondere ulteriormente il piglio imprenditoriale che lo caratterizza, serve probabilmente una spinta in più. Che possa giungere da una legge, non è certo. «E più facile legiferare quando un fenomeno presenta numeri importanti e fino a oggi le fondazioni d’impresa hanno poco contribuito», conclude Balbo, «bisognerà vedere se quelle d’origine bancaria sceglieranno di andare in direzione della venture philanthropy».
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