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Capuozzo: Chi vive nel superfluo venga a vedere la guerra
Il celebre giornalista lancia il messaggio durante un incontro pubblico ad Arcore con il collega delle Iene Pablo Trincia sulla figura del reporter di guerra. "Vedere la dignità di chi vive con niente sotto le bombe è una spinta per farci cambiare rotta, oggi più che mai"
di Redazione

“Non è più il momento di lamentarsi: molti di noi vivono nel superfluo. Chiedetelo a chi vive in guerra: dovremmo tutti andare a vederne una da vicino e cambierebbe il proprio modo di pensare”. Toni Capuozzo è più che determinato, quando si rivolge alle 230 persone che in un piovoso giovedì sera hanno affollato l’auditorium di Arcore, provincia di Monza e Brianza, per una serata pubblica dedicata alla figura del reporter di guerra, organizzata dall’associazione per la nonviolenza Paciamoci onlus con il patrocinio del Comune e l’appoggio della rete del non profit locale Volontariamo, che ha ospitato anche una mostra di quadri sui bambini soldato ad opera dell’artista Fabio Presti. Capuozzo, oggi vicedirettore del Tg5 e autore del programma di approfondimento Terra (in onda su Rete4) ha duettato per quasi tre ore con Pablo Trincia, inviato per il noto format di Italia Uno Le Iene (di recente in Siria per un reportage dentro la guerra civile in corso), rispondendo alle domande del moderatore Daniele Biella, giornalista e presidente di Paciamoci, e del pubblico.
Più di 30 anni da inviato di guerra: che sensazioni rimangono nell’uomo che è oggi Toni Capuozzo?
Sono le storie, le persone che ho incrociato, quello che più mi rimane del mio lavoro di reporter: sono la molla che, a 65 anni, mi spinge ancora ogni tanto a ripartire, assolutamente non c’entra nulla il piacere del rischio o la volontà di guadagnare di più. Io sono interessato alla gente, a come riesce a mantenere la dignità anche nelle situazioni più assurde: penso alla popolazione disperata di Sarajevo durante i quattro anni dell’assedio serbo (dal 1992 al 1996, ndr), ma anche agli abitanti di Belgrado su cui sono cadute le bombe Onu, alle tante vittime delle guerre africane, del conflitto israelo-palestinese. Un vero inviato di guerra vive con la popolazione, condivide le restrizioni, stringe amicizie, in primo luogo con i propri collaboratori, gli autisti, i cineoperatori locali, quelli che, alla fine, rimangono lì in mezzo alla tragedia, mentre io poi posso tornare a casa, anche se ogni volta diverso da quando sono partito.
Ieri come oggi il lavoro di reporter nei conflitti armati è altamente rischioso, ma ai giorni nostri sequestri e sparizioni, vedi l’angosciante silenzio legato alla scomparsa di Domenico Quirico, inviato 62enne de La Stampa, sono aumentati a dismisura. Era meglio prima?
Oggi nelle guerre ci vanno di mezzo sempre di più i civili, che, come nel caso della Siria, imbracciano anche le armi per resistere al regime e tentare di rovesciarlo. In questi conflitti irregolari, in particolare dove è presente il fondamentalismo islamico, i sequestri sono diventati una delle minacce peggiori per i giornalisti, che non vengono più rispettate come parte terza, neutrale ma sono trattati da nemici, perché, come i volontari, si possono rapire per ottenere qualche vantaggio: visibilità, denaro, liberazione di compagni detenuti. La situazione è rischiosa oggi più che mai, e la triste vicenda di Quirico è la conferma.
Nel suo ultimo libro, ‘Le guerre spiegate ai ragazzi ‘ (ed. Mondadori, 2012), spiega in modo molto diretto come nascono i conflitti armati, quali sono gli attori coinvolti e fa uscire tutta la negatività della guerra, pur ammettendo che il futuro di un mondo in pace è oggi a dir poco inverosimile. Con i propri reportage l’inviato riesce a condizionare l’esito di un conflitto?
Sono molto franco: no, il reporter di guerra ai giorni nostri non riesce a cambiare assolutamente una virgola per quanto riguarda il conflitto che sta raccontando. So che passo per disilluso, ma è l’esperienza che me lo fa dire, soprattutto dopo l’avere vissuto una parte della mia vita nell’assedio più lungo della storia moderna (a Sarajevo, 20 anni dopo, Capuozzo è tornato per un’edizione speciale di Terra, ndr). Quello che invece il reporter riesce a cambiare è la percezione di chi vede in televisione quello che lui racconta: lì sta il suo merito. Anche se ci vorrebbe molto di più per modificare certi atteggiamenti che abbiamo oggi, soprattutto legati al possesso delle cose inutili.
A cosa si riferisce?
A chi oggi non riesce a fare a meno del superfluo, nella vita di tutti i giorni, alla ricerca di un benessere distorto. Vorrei che ognuno di noi potesse ‘fare un giro’ dove c’è una guerra in corso, per vedere come si vive con niente e dove la cosa più importante è la salute, che basta per avere una vita dignitosa e sana. Invece nel nostro mondo la necessità del superfluo non accenna a diminuire nonostante la crisi, e questo è il male peggiore, molto di più dell’indifferenza che uno può provare di fronte alle guerre che si combattono altrove.
Il mondo della televisione e dei media è responsabile di questa deriva sociale?
In parte sì, perché spesso l’informazione è fatta da persone che scrivono e raccontano più per autocompiacimento che per spiegare davvero alla gente quello che accade. Detto questo, però, bisogna star attenti a non confondere i piani: è giusto che ci sia la televisione commerciale, che si occupi di temi ‘leggeri’, magari in prima serata quando le persone tornano a casa dal lavoro e non riescono a reggere il peso di un approfondimento su un conflitto armato in corso, con le relative scene tragiche e violente. Ma chi fa informazioni, in primo luogo nei telegiornali, deve tener conto che il suo messaggio arriva a milioni di persone, e quindi operare di conseguenza: non raccontando la propria verità, che comunque è sempre parziale, ma lavorando con la più totale onestà e correttezza morale.
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