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C’è o non c’è “L’industria della carità”?

Faccia a faccia a Repubblica tra l'autrice del libro Valentina Furlenetto e Francesco Petrelli di Oxfam Italia con Gianni Rufini, esperto di emergenze umanitarie

di Redazione

Un bel guaio ha combinato Valentina Furlanetto. Un bel sasso nello stagno, questo della giornalista di Radio 24, autrice de L'industria della carità  –  Da storie e testimonianze inedite il volto nascosto delle beneficenza, con una prefazione di Alex Zanotelli (Chiarelettere  –  243 pagine, 13.90 euro). Un libro che parla di “lassismo”, “inefficienza” e “sprechi” nel mondo della Cooperazione e che ha fatto fare diversi salti sulla sedia a decine, a centinaia, di operatori del settore, messi tutti in fila come davanti ad tribunale popolare, per sentirsi snocciolare le accuse e le recriminazioni di opacità nella gestione del denaro raccolto, in molti casi usato – stando al libro – anche per l'acquisto indiscriminato di Jeep, Suv, oltre che per cene e festini, laddove si muore di fame o di guerra.

Vederci chiaro. «Denunce», dice la Furlanetto, «legittimate dal fatto che a farle è una come me, che finora non ha fatto altro che rappresentare acriticamente questo universo di “buonì e solidali”, raccontando ciò che andavano realizzando in giro per il mondo». “Ma ora basta – si legge nel libro – è il momento di vederci chiaro, di fare un po' di conti e un bilancio sull'efficacia dei loro progetti. Soprattutto un bilancio di come si spende il denaro che i donatori, privati o istituzionali, hanno consegnato nelle loro mani, per aiutare il prossimo”.

I protagonisti dell'incontro. Si è posto così il problema di mettere a confronto l'accusatrice e gli accusati. Ma aprire un dibattito costruito su articoli scritti, pro e contro, da pubblicare sarebbe stato complicato e lungo da gestire. Si è invece preferito organizzare un incontro vis à vis tra la giornalista, il nostro collega Vladimiro Polchi, autore dell'articolo che ha presentato il libro della Furlanetto e due rappresentanti del mondo della cooperazione: Gianni Rufini, esperto di emergenze umanitarie, con un lungo passato in missioni in tutto il mondo, docente in diverse università italiane e straniere; e Francesco Petrelli, responsabile relazioni istituzionali per Oxfam Italia, ex presidente dell'Associazione delle Ong italiane. Ecco dunque il resoconto dell'incontro, avvenuto nella sede di Repubblica.

Valentina Furlanetto. Premetto, prima di cominciare la discussione, che il libro non è un tentativo di delegittimare le Ong e la Cooperazione nel suo complesso. Non ho nulla contro di loro ed è bene che si sappia che non sono arrivata adesso ad occuparmi di questi argomenti. Ormai da diversi anni, dalla Radio nella quale lavoro, cerco di raccontare questo mondo. Dunque, non ho voluto denigrare nessuno, né tanto meno sono arrivata alla conclusione che le Ong, o le agenzie internazionali e comunque tutto ciò che ruota attorno all'aiuto umanitario sia da buttare via. Il mio libro è un'inchiesta giornalistica, non è un trattato scientifico. Quindi può essere sottoposto a critiche per eventuali errori e omissioni. Sono però inconfutabili le testimonianze raccolte nell'ambiente dei cooperanti, che sono tutte autentiche, basate su esperienze dirette e rivelatrici di un clima che mi sembra assai diffuso in molte realtà.

Gianni Rufini. Dico subito che questo libro contiene un'analisi confusa, che mescola tutto e tutti, Ong piccole a grandi, Fondazioni, Associazioni di volontariato, Agenzie umanitarie delle Nazioni Unite, ecologisti, ricercatori nel campo dell'oncologia. Insomma tutti, infilati indistintamente nella stesso pentolone e questo non riesce affatto a rappresentare la verità delle cose.

Furlanetto. È un fatto però che le Ong non subiscono gli stessi controlli delle aziende profit, pur somigliando loro sempre di più. Del resto, il resoconto della Corte dei Conti del luglio scorso mi pare sia abbastanza chiaro. Sono stati passati al setaccio 84 progetti, dal 2008 al 2010, in 23 paesi. E' emerso di tutto: soldi mai arrivati a destinazione, progetti fermi, rendiconti spariti, responsabili di progetti fantasma, irregolarità varie. L'unico strumento di controllo è l'Istituto Italiano Donazioni composto da una sessantina di organizzazioni non governative, onlus e associazioni, che rilascia un certificato di fiducia e trasparenza, segnalando i comportamenti etici. Ora però, si converrà nel dire che ci troviamo di fronte ad un organismo che controlla i controllati? O no?

Rufini. Lei commette l'errore di confondere i finanziamenti pubblici, provenienti dal Ministero degli Esteri, dall'Unione Europea (la maggioranza), dalle Agenzie dell'Onu, dalle Regioni, dagli Enti locali… eccetera, e quelli privati. Ora deve essere chiaro a tutti che per quanto riguarda i primi, nessun altro ambito della vita pubblica come il nostro è sottoposto a controlli severissimi da parte delle pubbliche autorità. Non è materialmente possibile imbrogliare, quando i soldi per i progetti arrivano da organismi pubblici. I conti delle Ong vengono passati sotto lenti d'ingrandimento, radiografati in lungo e largo, tanto è vero che alcune volte capita di dover restituire quella parte di quanto ricevuto, che per ragioni diverse non si riesce a rendicontare. Altro il discorso invece per i finanziamenti privati: noi ci siamo dovuti dotare di uno strumento autonomo di controllo e verifica dei bilanci, per rendere trasparente l'afflusso di risorse che arriva dai donatori privati: cioè l'Istituto Italiano Donazioni, appunto. Ma se è l'unico che c'è, noi che c'entriamo? Mi scusi, signora, ma il fatto di aver noi costituito un organismo di auto controllo, in assenza di altri strumenti che lo Stato dovrebbe garantire, deve ritorcersi contro di noi? Può essere colpa nostra? Che si costituisca una istituzione pubblica di verifica dell'operato delle Ong. E si faccia presto. Siamo i primi a volerlo.

Petrelli. Se possibile vorrei aggiungere che i cooperanti non sono “buoni”, signora Furlanetto, come lei li definisce. Noi non sentiamo affatto di appartenere all'“Industria della carità”. I nostri riferimenti ideali sono la giustizia e i diritti. Vogliamo fare sviluppo assieme alle comunità locali nei luoghi dove operiamo e vorremmo essere giudicati per questa nostra difficilissima ambizione.

Vladimiro Polchi. D'accordo. Prima di tutto dico anche io che il libro di Valentina Furlanetto non è affatto un attacco diretto alle Ong, alla loro stessa esistenza. Non lo è affatto. Il suo libro, semmai, dovrebbe spronarvi a riflettere sul vostro ruolo che, ne siamo tutti convinti, non è affatto simile ad un sistema di controllo post-coloniale. Mi domando però se non sia fondata l'impressione che corriate il rischio di aver costruito un “progettificio” fine a se stesso, autoreferenziale.

Petrelli. I progetti vanno fatti, ma la cosa più importante per la stragrande maggioranza del movimento della Cooperazione sono i cambiamenti che si riesce ad imprimere tra i cittadini nella loro percezione dei diritti. Noi lavoriamo per il loro riconoscimento, in quei posti dove di diritti neanche si parla. Il nostro vero scopo è produrre processi di trasformazione nei rapporti tra le persone e i loro Stati. Processi contraddittori a volte, certo. Ma domandiamoci se il movimento della Cooperazione, a livello mondiale, non esistesse. Facciamocela questa domanda. Chi avrebbe mai posto all'attenzione del mondo intero, tanto per fare un solo esempio, il tema del land grabbing, cioè l'ormai indiscriminato accaparramento delle terre dei contadini poveri, da parte della grande industria dell'alimentazione. Un fenomeno che cancella drammaticamente l'autonomia e la sovranità alimentare di milioni di esseri umani, rendendoli subalterni costringendoli ad acquistare cibo importato dalle stesse multinazionali dell'alimentazione, che dipendenti cronici dagli aiuti internazionali. Il nostro lavoro serve a questo, ad incidere sulle regole che governano i rapporti tra stati ricchi e il resto del mondo che non ha voce né potere.

Furlanetto. Io però, scusate se insisto, ma continuo a restare perplessa dopo la relazione della Corte dei Conti. Così come mi sembrano inutili esibizioni i vostri bilanci sociali, che rendono conto solo del funzionamento delle strutture, raccontano cosa si fa, ma non dicono nulla di come si spendono i soldi.

Petrelli. Le faccio notare, signora, che il Sole 24 Ore, Gruppo editoriale per il quale lei lavora, per anni ha avuto una pagina fissa nella quale un'Agenzia specializzata indipendente analizzava bilanci economici e sociali. Bene, se avesse consultato quelle pagine, si sarebbe accorta che proprio a proposito dell'organizzazione per la quale lavoravo allora – cioè Ucodep, quando ancora non era confluita in Oxfam – aveva dato giudizi così lusinghieri sulla loro qualità e innovatività, che ci avevano molto aiutato a vincere l'Oscar per il miglior bilancio sociale della categoria non profit. Non solo, ma citava tante performance lusinghiere di numerose altre organizzazioni.

Il moderatore. Insomma: giustizia e diritti come idee-guida. Va bene. Ma siete davvero sicuri che tutto l'universo della Cooperazione sia su questa linea? Il sentimento solidale di ispirazione laica o cattolica, si presenta unito e compatto su questi punti? Quel sentirsi un po' al riparo dal rendere conto di come si spendono i soldi (come purtroppo qualche volta avviene) quel sentirsi “diversi”, “buoni”, “solidali” , come segnala nel libro la Furlanetto, non è un po' il retaggio di una cultura paternalistica-post-coloniale?

Rufini. Si c'è diversità di ispirazione, ma è una diversità che arricchisce. Chi costruisce pozzi, scuole, infrastrutture assieme alle comunità locali, laddove c'è bisogno non entra in contraddizione con chi contemporaneamente lavora sulla diffusione della consapevolezza dei propri diritti, attraverso progetti mirati, che possono prendere la forma di corsi di formazione professionale, o attraverso l'istruzione.

Petrelli. E comunque ormai la grande maggioranza delle persone che lavora nella Cooperazione è convinta che per cambiare davvero le cose non ci si deve sentire caritatevoli. L'idea che prevale è quella della giustizia, ma non quella divina. Il rischio che corriamo, di cui il libro non parla, semmai è quello di essere condizionati dagli interessi di chi finanzia i progetti. Ecco perché è fondamentale l'indipendenza nella raccolta trasparente dei fondi, realizzata secondo i principi-guida delle singole organizzazioni. Insomma, lavoriamo per un futuro comune, affrontando problemi che riguardano tutti. Sempre più tutti.

Articolo a cura di Carlo Ciavoni per Repubblica.it

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