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Cercano nuovi modelli: ecco un esempio da emulare

di Redazione

Se lo choc petrolifero del 73 aveva chiuso i “trenta gloriosi” del boom economico post bellico, la crisi attuale – ormai tutta sul groppone della finanza pubblica – rischia di mettere la parola fine al sistema di protezione sociale come l’abbiamo conosciuto, chi più e ahimé molti meno, negli ultimi decenni: universalistico, pubblico e redistributivo. Ad inalberarsi ora sono soprattutto le amministrazioni locali. Dal non profit, in particolare da quello produttivo, ancora poco o nulla. Può darsi che le proteste arriveranno anche da questo fronte, ma la reazione non immediata suona come una sorta di presa d’atto, frutto della consapevolezza che l’epilogo stava nelle cose, essendo alimentato da tendenze che la crisi ha semplicemente accelerato. Chi prima e meglio ha letto questo quadro evolutivo ha avuto un certo tempo per cambiare registro rispetto allo schema classico che, nel peggiore dei casi, vedeva le imprese sociali in veste di epigoni delle esternalizzazioni della pubblica amministrazione, e nel migliore le rappresentava come attori capaci di esercitare una certa leadership nei sistemi di governance del welfare istituzionale. Il percorso di smarcamento è tutt’altro che semplice e soprattutto ben lontano dal concludersi: per qualcuno una vera e propria traversata nel deserto, pure senza guida. Eppure non si è soli. Basta guardare a quanto sta succedendo in settori neanche troppo distanti per trarre qualche utile insegnamento. Ad esempio nel forum pubblicato in queste pagine non si legge alcun rimpianto per i tempi andati, quando il Mae era il principale interlocutore. C’è più propensione a trovare nuovi modelli di sostenibilità in grado di intercettare risorse di svariata provenienza e di combinarle in progetti di medio / lungo periodo facendo leva su network non di rappresentanza ma di progetto. Da emulare.

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