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Chi sono i giovani della terza rivoluzione nepalese

La rivoluzione della cosiddetta Generazione Z contro la corruzione e l’incompetenza di una classe dirigente incancrenita si è svolta velocemente. Sui ragazzi tra i 12 e i 26 anni che hanno manifestato, sui leader politici e della società civile che li hanno sostenuti, ora pende l’enorme responsabilità di evitare che il Paese himalayano sprofondi nell’instabilità

di Francesca Lancini

Gli incendi sono stati spenti. I monsoni hanno spazzato via la coltre di fumo, ma il cielo sopra Kathmandu resta grigio e gonfio dell’umidità al cento per cento. Nelle strade si ripuliscono i resti di auto, negozi, abitazioni. La ristrutturazione dei grandi edifici dati alle fiamme richiederà più tempo e risorse. Nella capitale, il Parlamento, il complesso di ministeri di Singha Durbar, la Corte Suprema, l’hotel Hilton e il grattacielo del quotidiano Kathmandu Post campeggiano come giganti feriti. Tutti i poteri dello Stato e i suoi principali simboli sono stati attaccati.

Tra il 5 e il 9 settembre le proteste anti-governative dei giovani hanno condotto il Nepal a un bivio. Sembrerebbe regnare la calma. Gran parte dei nepalesi è sollevata perché in pochissimo tempo, si è giunti alle dimissioni del primo ministro Sharma Oli e allo scioglimento dell’assemblea federale. Tutta questa cenere, però, emana un senso di inquietudine. La rivoluzione della cosiddetta Generazione Z contro la corruzione e l’incompetenza di una classe dirigente incancrenita si è svolta velocemente. Ma rapida dovrà essere anche la ripartenza delle principali funzioni della repubblica democratica. 

Sui ragazzi tra i 12 e i 26 anni che hanno manifestato, sui leader politici e della società civile che li hanno sostenuti, pende l’enorme responsabilità di evitare che il Paese himalayano sprofondi nell’instabilità. E poi, non da ultimo, ci sono le vittime alle quali bisognerà dare giustizia, ripristinando lo stato di diritto: finora si contano 72 morti, di cui 59 manifestanti, 3 poliziotti e 10 detenuti fuggiti dalle carceri, oltre a più di 2mila feriti. Le rivolte hanno sorpreso e scioccato perché tra l’8 e il 9 settembre da pacifiche si sono trasformate bruscamente in violente, a danno di persone ed edifici. Molti ipotizzano infiltrazioni esterne. Bisognerà, quindi, garantire un’inchiesta completa per scongiurare altre tensioni.

La rabbia della gioventù nepalese è esplosa a inizio settembre, ma ha radici profonde. Negli ultimi vent’anni tutti i governi hanno tradito le promesse fatte alla popolazione. I leader dei partiti che si sono alternati al potere, maoisti, comunisti marxisti-leninisti, socialisti dell’antico partito del Congresso, si sono arricchiti a dismisura, ostentando case e auto lussuose, favorendo parenti e amici. I loro figli si sono mostrati sui social network in luoghi di villeggiatura e in possesso di beni inaccessibili ai loro coetanei. A fine agosto l’ashtag locale #nepokids (figli del nepotismo) e quello internazionale col medesimo significato #nepobaby sono diventati così virali da riunire i GenZ nepalesi in un movimento contro le disuguaglianze. Nei loro post si domandavano: “Dove finiscono veramente le nostre tasse”, “Perché il budget (pubblico) svanisce nel nulla?”.  

L’ultima mossa sbagliata per il premier comunista Oli è stata quella di bandire il 4 settembre ben 26 social network, tra cui Instagram, Facebook, WhatsApp, X, YouTube, LinkedIn, Reddit, Signal e Snapchat. Una goccia che ha fatto traboccare un vaso stracolmo. I ragazzi hanno trovato un motivo in più per organizzare la rivolta utilizzando altri mezzi, come il social cinese Tik Tok, rimasto aperto probabilmente perché il governo non voleva scontentare Pechino. E quando nella notte dell’8 settembre l’Esecutivo ha tolto in extremis ogni blocco a Internet, era ormai troppo tardi. Già 19 manifestanti erano rimasti uccisi. Martedì 9 Sharma Oli si è dimesso; altri ministri sono stati aggrediti o costretti a fuggire in elicottero. La moglie dell’ex premier Jhala Nath Khanal ha riportato gravi ferite nel rogo della sua casa. 

Non si poteva immaginare fine più impietosa per quella generazione di politici che aveva fatto transitare il Paese Himalayano da monarchia assoluta indù a repubblica democratica. Dopo una guerra di 10 anni tra insorti maoisti ed esercito reale, 17mila morti e 3mila scomparsi, nel 2006 si era finalmente giunti a un armistizio. Anche i giovani di allora erano scesi per le strade pieni di speranza. Il re Gyanendra, della storica dinastia Rana, aveva rinunciato ai pieni poteri e nell’anno successivo i leader maoisti erano entrati in parlamento e in un governo di transizione. Nel 2008 veniva proclamata la repubblica parlamentare e nel 2015 passava la nuova Costituzione laica. Questi sviluppi democratici, tuttavia, non hanno impedito a figure persino mitizzate come il più volte primo ministro Pushpa Kamal Dahal, noto come “Prachanda, il fiero” quando era a capo dei guerriglieri maoisti, di trasformarsi in cleptocrati così come avevano fatto i sovrani che lui stesso aveva combattuto. 

«Quella del 2006 è stata la nostra rivoluzione fallita», racconta al telefono una guida himalayana che preferisce restare anonima. E tra una disconnessione e l’altra aggiunge: «Partivamo però da un contesto diverso; conoscevamo gli abusi compiuti in guerra sia dai maoisti che dai militari monarchici. Uccisioni sommarie, torture, stupri di massa. Allora ero solo uno studente, pacifico, ma mi rendevo conto che forse non c’erano i presupposti per un vero cambiamento. Oggi è diverso. Questi giovani sono diversi e i nuovi politici che li supportano come il sindaco Balendra Shah».  

Il primo cittadino di Kathamandu, detto Balen, è un punto di riferimento per i GenZ. Ingegnere civile ed ex rapper, a 35 anni è molto popolare e considerato una persona integra per la sua lotta contro la lobby corrotta del riciclo dei rifiuti. «Vero. Tanti ragazzi nel 2022 hanno pregato i loro genitori di votarlo», ci dice un operatore umanitario. «Non ne possono più. Non riescono a immaginare un futuro qui e sperano in un cambiamento radicale. Delle mie amiche che insegnano all’università mi dicono che ormai ci sono pochissimi iscritti. Dopo il diploma o addirittura prima, i giovani scappano all’estero. È molto triste». 

Nel 2023, 741mila nepalesi sono emigrati all’estero per lavorare, e nel 2024 più di 856mila. Negli ultimi due anni oltre 200mila individui hanno invece lasciato il Paese asiatico per motivi di studio. La popolazione tra i 15 e i 24 anni costituisce un quinto di 30 milioni di abitanti, ma fatica a trovare un posto di lavoro. La disoccupazione giovanile è al 21% e quasi di sicuro sottostimata. E tra chi ha un impiego, il reddito medio annuale è di 1.280 euro. 

Nel Nepal, incastonato fra India e Cina, non ci sono industrie importanti e il turismo occupa un milione di persone, contribuendo dal 6% al 7% del Pil nazionale. L’agricoltura è in declino. La migrazione verso le aree urbane prosegue inesorabile da decenni perché coltivare è complicato in un territorio montagnoso con terrazzamenti stretti dove non si riescono a utilizzare né un piccolo trattore né buoi da traino. I netizen nepalesi partono per Paesi anglofoni, dato che quasi tutti studiano inglese a scuola, il Golfo Persico e la Malesia. 

«Questi ragazzi sono diversi da quelli che parteciparono alle altre due grandi proteste popolari del 1990 e del 2006 contro la monarchia assoluta», ci spiega Ashish Pradhan, consigliere senior del presidente dell’International Crisis Group, dalla sua casa nepalese di Lalitpur. L’analista, rientrato da New York dove lavora nel team dell’Icg alle Nazioni Unite, conferma quanto diceva la guida himalayana: «Sono molto sofisticati. Puoi bandire dei social media, ma loro troveranno il modo di aggirare le restrizioni con altri server e risorse». 

In effetti durante l’imposizione del coprifuoco, da mercoledì 10 a venerdì 12, i ragazzi hanno utilizzato Discord per consultarsi con dei costituzionalisti, l’ex speaker della camera Dev Raj Ghimire, il capo di stato maggiore dell’esercito Ashok Raj Sigdel e per scegliere la prima ministra donna (anche se ad interim) Sushila Karki. Questa nomina, caduta sull’ex giudice capa della Corte Suprema, esempio di integrità e rigore, era estremamente urgente per evitare un vuoto di potere e stabilire la data delle nuove elezioni che si dovrebbero tenere a marzo.  

Pradhan continua: «La corruzione e la malagestione ci sono sempre state ma non si vedevano. I GenZ se le sono trovate davanti agli occhi. Specialmente i post dei figli dei politici, che mostravano il loro sontuoso stile di vita, hanno rotto la barriera e cancellato la distanza fra élite e gente comune. Questa generazione sta solo provando a trovare la sua voce politica».

Due eventi, inoltre, hanno segnato la generazione cresciuta dopo la guerra civile: il terremoto del 2015, che ha causato quasi 9mila morti e 22mila feriti, e la pandemia di Covid-19 gestita in modo disastroso proprio dal governo di Sharma Oli. Subito dopo aver perso suo figlio nel sisma, l’ex dj Sudan Gurung, oggi 36enne, ha fondato l’associazione non profit “Hami Nepal” che ha avuto un ruolo centrale nelle ultime proteste e nella negoziazione del nuovo primo ministro. All’inizio Hami si è occupata di emergenza e soccorso ai terremotati, ma è soprattutto nella risposta al Covid-19 che ha ricevuto un riconoscimento nazionale e allargato la sua rete a centinaia di migliaia di volontari, tra i quali molti GenZ. 

Lavorando a stretto contatto con la società civile, più di recente Hami Nepal si è resa conto del malessere che attraversava il Paese, lanciando la campagna social #youthagainstcorruption. È stata Hami a guidare le proteste anti-governative, mettendo a disposizione i suoi account Instagram e Discord. Tuttavia, è proprio da Sudan Gurung che sono arrivate le prime critiche aggressive alla nuova premier Karki per la scelta di alcuni ministri: “Se scendiamo di nuovo in piazza, nessuno potrà fermarci. Vi butteremo giù dalla sedia su cui siete stati costretti a sedere”, ha detto.

Non è facile costruire una democrazia. Il percorso è sempre lungo e accidentato. Si è visto nella protesta dei giovani del 2022 in Sri Lanka e in quella dell’anno scorso in Bangladesh. La prima, chiamata Aragalaya, ha smantellato la cleptocrazia filo-cinese dei fratelli Rajapaksa e ha condotto all’elezione di un nuovo governo che sta facendo i conti con la pesante eredità della guerra fra guerriglieri Tamil e governo nazionalista Cingalese. La seconda è riuscita a cacciare un’altra cleptocrate, l’autoritaria Sheikh Hasina, e a intraprendere un processo radicale di riforme democratiche guidato dal premier ad interim ed economista Muhammad Yunus. Il voto è previsto per l’inizio del 2026, ma la coalizione dei giovani appare al momento troppo fragile e divisa.

AP Photo/Niranjan Shrestha/Associated Press /LaPress

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