Sport
Coni, l’occasione mancata: una riflessione dopo il voto che ha escluso Luca Pancalli
La domanda, nel giorno in cui Luca Pancalli ha perso la partita per la presidenza del Coni è inevitabile: la sua condizione di disabilità ha inciso nella decisione finale? Quanto pesano ancora i pregiudizi che relegano certe figure, pur autorevolissime, a ruoli “di nicchia”, tematici, mai davvero chiamati a rappresentare l’universale dello sport italiano? È una domanda scomoda, forse anche ingenerosa. Ma è una domanda che va posta

Le elezioni per la presidenza del Coni si sono concluse e, com’è naturale in un momento così delicato per lo sport italiano, è tempo di riflessioni. Luca Pancalli, figura autorevole e competente, non è stato eletto. Un risultato che merita di essere analizzato non solo alla luce dell’aritmetica del voto, ma anche per ciò che dice — e non dice — sul presente e sul futuro della rappresentanza sportiva nel nostro Paese.
Qualche settimana fa mi ero espresso pubblicamente a favore della candidatura di Pancalli. L’ho fatto con convinzione, perché ritenevo – e continuo a ritenere – che la sua figura rappresentasse un’occasione storica per imprimere una svolta culturale al mondo dello sport italiano. Per questo, oggi sento il dovere di condividere alcune considerazioni, non con spirito polemico, ma con la volontà di contribuire a un dibattito che sia all’altezza delle sfide che ci attendono.
Mi sarei augurato di commentare questo voto con un sentimento diverso, sperando di poter celebrare l’elezione di un “amico”, ma soprattutto di un professionista esemplare. Eppure, anche a fronte di un esito differente da quello auspicato, non posso sottrarmi al compito – anche scomodo – di guardare in faccia la realtà e cercare di capire cosa sia accaduto oggi all’interno delle urne del Coni. È proprio nei momenti in cui si perde un’opportunità che si ha la responsabilità di interrogarsi più a fondo.
La domanda, a questo punto, è inevitabile: la condizione di disabilità di Luca Pancalli ha inciso nella decisione finale? È una domanda scomoda, forse anche ingenerosa. Ma è una domanda che va posta.
Pancalli ha dimostrato nei fatti, negli anni e nei ruoli che ha ricoperto, di essere molto più che “una persona con disabilità”. È stato atleta olimpico, paralimpico, ed è stato presidente del Comitato Italiano Paralimpico, è stato assessore, dirigente, presidente della Federcalcio, interlocutore credibile delle istituzioni nazionali e internazionali. Ha incarnato l’idea di uno sport capace di essere inclusivo non solo nei regolamenti, ma nelle sue visioni e strategie. Sarebbe stato perfettamente in grado di rappresentare l’intero sistema sportivo nazionale in tutte le sue articolazioni, non solo il mondo paralimpico.
Per questo in molti si sono chiesti se, con lui alla guida del Coni, lo sport italiano avrebbe potuto compiere un vero passo in avanti verso l’inclusione piena, non più solo nei proclami ma nei fatti.
Tuttavia, qualcosa si è inceppato. Gli 81 grandi elettori chiamati a scegliere il nuovo presidente hanno seguito altre logiche, forse più tradizionali, forse più rassicuranti. Logiche che non sempre coincidono con il coraggio dell’innovazione o con la volontà di rappresentare la pluralità del mondo sportivo. Perché è di questo che stiamo parlando: della capacità di un’istituzione come il Coni di rispecchiare l’intera galassia dello sport, non solo quella olimpica o professionistica, ma anche quella sociale, inclusiva, accessibile.
L’elezione di Pancalli avrebbe rappresentato non una rottura, ma una maturazione: il segno che lo sport italiano è pronto a riconoscere, senza riserve, che la leadership può e deve appartenere anche a chi, come lui, ha saputo trasformare una condizione personale in una visione collettiva
Vincenzo Falabella
Le logiche che guidano queste elezioni sono complesse: ci sono equilibri, alleanze, visioni diverse. Ma è difficile non notare come, ancora una volta, il coraggio di aprire una strada nuova si sia scontrato con la forza dell’establishment. L’elezione di Pancalli avrebbe rappresentato non una rottura, ma una maturazione: il segno che lo sport italiano è pronto a riconoscere, senza riserve, che la leadership può e deve appartenere anche a chi, come lui, ha saputo trasformare una condizione personale in una visione collettiva.
Naturalmente, questa riflessione non vuole minimamente mettere in discussione la legittimità del risultato o fornire alibi a chi ha espresso, con pieno diritto, il proprio voto in favore di Luciano Bonfiglio. A lui vanno, anzi, le più sincere congratulazioni per la vittoria ottenuta e per il percorso che lo attende alla guida di un’istituzione tanto complessa quanto centrale nello sport italiano. Tuttavia, ciò che lascia perplessi è il modo in cui questa elezione è stata raccontata, quasi ridotta a uno schema binario e semplificato: Bonfiglio come “l’uomo di Malagò” che batte Pancalli.
Che ci sia stato un confronto elettorale è ovvio, che vi fossero delle alleanze è fisiologico, ma leggere nei lanci di agenzia titoli che enfatizzano questa contrapposizione come se fosse una partita a scacchi giocata da altri, è paradossale. Le parole, soprattutto quando vengono usate nei titoli o nelle narrazioni ufficiali, hanno un peso e non possono essere scelte con leggerezza. Continuare a etichettare persone e ruoli in base a rapporti di potere anziché ai contenuti delle visioni che rappresentano rischia di impoverire il dibattito e di allontanare il mondo dello sport da quella maturità politica e culturale di cui ha oggi profondamente bisogno.
La vera questione, allora, non è se una persona con disabilità possa guidare lo sport italiano. La vera domanda è: perché non dovrebbe poterlo fare? È forse il pregiudizio, ancora presente, seppur in forme sottili e quasi invisibili, a suggerire che “certi ruoli” debbano essere occupati solo da chi risponde a determinati standard? Pancalli, con il suo percorso umano e professionale, ha già dimostrato di essere molto più di un simbolo. Ma a pensar male, direbbe qualcuno, si fa peccato… eppure, spesso, ci si azzecca. È lecito chiedersi se, sotto traccia, resista ancora un pregiudizio non esplicito, ma strisciante: quello che relega certe figure, pur autorevolissime, a ruoli “di nicchia”, confinati in ambiti tematici, mai davvero chiamati a rappresentare l’universale dello sport italiano.
È lecito chiedersi se, sotto traccia, resista ancora un pregiudizio non esplicito, ma strisciante: quello che relega certe figure, pur autorevolissime, a ruoli “di nicchia”, confinati in ambiti tematici, mai davvero chiamati a rappresentare l’universale dello sport italiano
Vincenzo Falabella
In una fase storica in cui il movimento sportivo si interroga su come essere più giusto, più rappresentativo, più aperto, l’esclusione di una figura come Pancalli non può essere derubricata a semplice risultato elettorale. È forse un’occasione persa, ma potrebbe diventare il punto di partenza per un cambiamento più profondo. Dipenderà da quanto siamo davvero pronti, come sistema, a riconoscere che la diversità – quando è sostenuta da qualità – non è una concessione, ma un valore fondante.
Perché una cosa è certa: finché non considereremo normale che una persona con disabilità possa guidare l’intero sistema sportivo – e non solo il segmento paralimpico – vorrà dire che quello stesso sistema è ancora incompleto.
Giovanni Malagò, presidente uscente, durante il Consiglio Nazionale Elettivo del Coni, a Roma (Photo by Fabrizio Corradetti / LaPresse)
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