Famiglia

Continuità degli affetti, dieci anni dopo: la terribile attualità di una legge inutile

Ad ottobre compirà dieci anni la legge n. 173/ 2015 che sancisce il diritto alla continuità degli affetti dei minori in affido. Nel momento in cui si riconoscono tutte le "zone grigie" che esistono tra affido e adozione e si apre uno spiraglio alla revisione della legge 184/1983, è cruciale fare il punto sulle prassi relative all'attuazione della continuità degli affetti. In dialogo con Joëlle Long, associata di Diritto privato presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino

di Sara De Carli

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Dieci anni dopo, che bilancio si può fare della legge sul diritto alla continuità degli affetti dei bambini e delle bambine in affido familiare? Come è stata attuata, nelle prassi operative? Il diritto dei bambini, sancito dalla legge, è stato attuato? Quella sul “bilancio” è una domanda che accompagna tutti i compleanni tondi, talvolta anche in maniera retorica – la legge n. 173/ 2015 al compleanno tondo dei dieci anni ci arriverà il prossimo 19 ottobre – ma in questo caso a spingerla c’è soprattutto l’urgenza dolorosa della cronaca.

«Una legge tecnicamente inutile, ma paradossalmente molto attuale», sintetizza efficacemente Joëlle Long, associata di Diritto privato presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino ed esperta di diritto minorile e di famiglia. Non è una provocazione, perché tecnicamente il principio del superiore interesse del minore che informa tutta la nostra legislazione dovrebbe già dare per scontata la tutela degli affetti significativi per un minore. Eppure l’attuazione della legge 173/2015 ha presentato le sue criticità, perché nella prassi solleva questioni che mettono in discussione procedure e sguardi professionali, a cominciare da quella rigida separazione tra affido e adozione prevista dalla legge 184/1983.

Perché tornare ad occuparsi oggi di “continuità degli affetti” nell’affidamento familiare?

È un tema di grande attualità. Le vicende giunte anche recentemente alla ribalta della cronaca sono diverse: l’ultima è quella del bambino di quattro anni che è stato chiamato Luca, accolto in affidamento familiare molto piccolo e rimasto in affidamento per anni e poi dichiarato in stato di adottabilità: la famiglia affidataria era disponibile all’adozione ma il tribunale ha ritenuto di scegliere un’altra famiglia. Al di là della vicenda specifica, sulla quale non mi pronuncio perché non ne conosco i dettagli, avendone solo letto negli articoli di giornali, è indubbio che vi siano stati alcuni casi di questo tipo: riecheggiano la vicenda sottoposta all’esame della Corte europea dei diritti umani-Cedu nella sentenza Moretti e Benedetti contro Italia del 2010. La condanna dell’Italia ha dato una spinta fondamentale all’elaborazione e all’approvazione della legge n.173. Va poi sottolineato che il tema della continuità degli affetti ha una significativa rilevanza sociale, perché se il titolo della legge e i casi di cronaca ai quali prima ho fatto cenno fanno riferimento al diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affidamento familiare, in realtà è chiaro che tale diritto non può rimanere confinato al campo dell’affidamento familiare, ma deve ricomprendere anche il collocamento in comunità. Vuol dire quindi che anche il minorenne che conclude un’esperienza di vita in comunità per tornare nella famiglia di origine o per entrare in una nuova famiglia attraverso l’adozione ha diritto a mantenere dei rapporti con un educatore a cui è particolarmente legato. I numeri quindi sono considerevoli: tra minori in affido e minori in comunità parliamo di un ambito di applicazione di questa legge di oltre 30mila minori.

Il diritto alla continuità degli affetti è innanzitutto del bambino. Questo nel testo della legge è molto chiaro, anche se poi a rivendicarlo sono gli adulti, come se fosse un diritto proprio.

La legge lo configura esclusivamente come diritto del bambino e poi pone delle garanzie, anche processuali, a sua tutela che riguardano anche gli adulti, in particolare gli affidatari: per esempio il loro diritto di essere ascoltati nel processo a pena di nullità.  È ovvio che si tratta di un diritto relazionale, cioè che coinvolge due parti. Ma visto che il nostro ordinamento è governato dal principio del superiore interesse del minore, questo significa che se in quella relazione c’è il rischio di un pregiudizio per la persona di età minore, il diritto dell’adulto deve soccombere. La 173 è una legge molto equilibrata perché, come vedremo, cerca di prevenire il conflitto tra adulti, in particolare la contrapposizione tra affidatari e famiglia di origine: nel caso in cui, per esempio, la famiglia di origine impedisca i contatti del figlio con la famiglia affidataria al termine dell’affido, gli affidatari non hanno una legittimazione attiva a ricorrere al giudice ma nell’interesse del bambino possono segnalare la cosa al pubblico ministero minorile affinché formuli al giudice una richiesta di prescrizione ai genitori di consentire le visite. Questo è stato uno dei nodi principali nell’elaborazione successiva all’approvazione della legge: è nell’interesse del minore che gli affidatari non siano tecnicamente parti del processo per la dichiarazione dello stato di adottabilità. Aggiungerei però un’osservazione, rispetto al diritto del minore alla continuità degli affetti prevista dalla legge 173.

Quale?

La legge 173/2015 ha un contenuto molto articolato, è scritta bene, è attenta alla terminologia, per esempio è uno dei pochi casi in cui una legge declina il genere maschile e femminile parlando di “bambine” e “bambini”. Tuttavia del loro “diritto” alla continuità degli affetti si parla solo nel titolo. Tutto il contenuto di questa legge è una individuazione e una disciplina delle garanzie per il diritto alla continuità affettiva, che però appunto come diritto è contenuto solo nel titolo.

Joelle Long, associata di Diritto privato presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino
Joelle Long, esperta di diritto minorile e di famiglia, associata di Diritto privato presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino

Quando dice che il diritto c’è solo nel titolo della legge, intende dire che poi quel diritto resta vuoto?

No. Dico però che la legge 173 diversamente da altri testi normativi, i quali solitamente si aprono con la proclamazione di un diritto, fa la scelta di confinare la proclamazione del diritto al solo titolo. Poi nel testo della legge non se ne trova menzione. Lo dico perché è importante in una riflessione sulla legge partire dal titolo per poi analizzare i contenuti.

Quali sono gli strumenti per dare attuazione al diritto alla continuità affettiva?

La legge individua sei garanzie. Quella più nota – secondo me a torto in quanto non dovrebbe essere lo strumento più importante – è quello che stabilisce un titolo di preferenza per gli affidatari che chiedono l’adozione piena del minore che hanno in affido, qualora il minore sia stato dichiarato adottabile e qualora gli affidatari abbiano i requisiti per l’adozione piena. Quindi gli affidatari non solo possono presentare domanda – cosa che ovviamente potevano fare anche prima – ma si scrive nero su bianco che devono essere preferiti, a parità di condizioni con gli altri potenziali adottanti. Questo prima non era scritto. C’erano delle prassi in questa direzione, ma esistevano anche prassi in direzione opposta a seconda dei Tribunali. Ora si esplicita che occorre valorizzare il rapporto che si è sviluppato durante l’affidamento familiare, cosa che dovrebbe portare a una preferenza per la coppia affidataria.

Però è diverso garantire la continuità degli affetti e dei contatti, valorizzare il rapporto e dire che la coppia affidataria ha una precedenza. Questa precedenza della coppia è scritta? Perché poi – se è così – leggiamo casi di cronaca in altra direzione?

Il nuovo articolo 5 bis della legge 184/1983, novellato dalla legge 173/2015, dice che il Tribunale per i minorenni nel decidere l’adozione deve “tenere conto” dei legami affettivi significativi e del rapporto stabile e duraturo consolidatosi tra il minore e la famiglia affidataria. Quando la legge 173 è entrata in vigore, effettivamente ci sono state due linee interpretative. Una diceva che non è scritto da nessuna parte che c’è un criterio di preferenza e faceva valere la lettera della legge. L’altra invece – l’opinione maggioritaria – basandosi sui lavori preparatori della legge dava per pacifico che l’idea fosse proprio quella di riconoscere un criterio di preferenza, nel senso che se la coppia affidataria ha i requisiti per l’adozione, se il minore è adottabile e se c’è una disponibilità da parte della coppia ad adottare, quella coppia deve essere preferita alle altre, salvo ovviamente che nell’interesse del minore ci siano delle ragioni per le quali l’adozione da parte di quella coppia non è opportuna. In effetti, a stretto rigore, non c’era bisogno di una norma di questo tipo, perché l’importanza della continuità degli affetti era già insita nel principio del superiore interesse del minore: quindi la legge poteva parere inutile. Dal punto di vista tecnico questo è certamente vero, ma diciamo che sia esempi precedenti all’approvazione della legge sia più recenti – si veda appunto la vicenda del piccolo Luca – ci dicono come a livello di pratiche non sempre questo avvenga: in quest’ottica è opportuno che sia scritto in un testo di legge.


Sui social nei commenti a questa vicenda è stato scritto che la famiglia affidataria ha un “diritto di prelazione”. Che cosa suscita in lei sentire questa espressione?

Mi fa ricordare quando si discuteva del caso di Serena Cruz, alla fine degli anni Ottanta, e si parlava di rischio di “usucapione”. L’idea è che il decorrere del tempo e il fatto che tu cresca un bambino come figlio ti dia un diritto a essere riconosciuto legalmente come suo genitore. Come cercavo di spiegare prima, il testo della legge non parla di un diritto degli adulti a essere preferiti ma ci dice che si «tiene conto dei legami affettivi significativi». Quindi se si afferma l’esistenza di un diritto degli affidatari, c’è un doppio errore: il primo perché la continuità è un diritto del minore, e solo in via subordinata dell’adulto, il secondo perché si fa dire alla legge qualcosa che la legge non dice in termini espliciti. Come dicevo, alla luce dei lavori preparatori, un’interpretazione teleologica della legge ci porta a dire che il minore ha un diritto a essere adottato da parte degli affidatari. Ma diciamo che è una presunzione: c’è una presunzione che l’adozione da parte degli affidatari sia nell’interesse del minore, perché c’è una presunzione che durante l’affidamento protratto nel tempo si siano sviluppati fra loro dei rapporti affettivi significativi. Si tratta di un importante riconoscimento del valore legale e sociale dell’affidamento familiare, perché l’affidamento familiare fa questo: “nutre” il minore costruendo per lui legami affettivi. Certo è una presunzione relativa, cioè una presunzione che può essere superata da una prova contraria. La legge non dice che se c’è la disponibilità degli affidatari, il bambino deve essere necessariamente adottato degli affidatari: non c’è mai un automatismo. C’è una valutazione dell’autorità giudiziaria, tenendo conto delle valutazioni documentate dei servizi sociali.

Il testo della legge non parla di un diritto degli adulti a essere preferiti ma ci dice che si «tiene conto dei legami affettivi significativi». C’è una presunzione che l’adozione da parte degli affidatari sia nell’interesse del minore, perché c’è una presunzione che durante l’affidamento protratto nel tempo si siano sviluppati fra loro dei rapporti affettivi significativi

Joëlle Long

Questa è la conseguenza più evidente della legge. Però lei diceva che è sopravvalutata. Perché?

Secondo me la garanzia più importante della continuità degli affetti maturati durante l’affido è un’altra, che però nella pratica è talvolta difficile da implementare. Riguarda il diritto del minore al mantenimento dei contatti con gli affidatari dopo la cessazione dell’affido: questo vale sia nei casi in cui il minore sia dichiarato adottabile e abbinato con una famiglia diversa, sia quando si sceglie un’altra famiglia affidataria perché quell’affidamento lì, per le ragioni più varie, viene a cessare, sia quando il minore ritorna nella famiglia d’origine. Si aprono tutta una serie di questioni che ci portano a introdurre il tema del “bilancio” dell’attuazione della legge e delle difficoltà che ci sono nell’applicazione della norma: per esempio ci si chiede come tutelare la continuità degli affetti se il giudice non lo prevede espressamente nel provvedimento con cui pone termine all’affido. Nel caso di adozione, poi, lo deve scrivere nella dichiarazione dello stato d’adottabilità o addirittura nella sentenza di adozione? Che si tratti della famiglia adottiva o di quella di origine, prescrivere una cosa del genere significa porre una limitazione della responsabilità genitoriale in una situazione in cui però si suppone che si tratti di persone che sono in grado di perseguire l’interesse del minore. Nel caso del rientro nella famiglia di origine potrebbe essere visto come contraddittorio: si riconosce che i genitori sono in grado di badare nuovamente al figlio e però si impone loro di tenere una determinata condotta.


Accennava prima alla possibilità di mantenere dei contatti con gli educatori della comunità: accede?

È un punto estremamente importante, ma a mio giudizio se l’attenzione ancora non è ottimale nel caso di bambini e bambine, ragazzi e ragazze in affidamento familiare, lo è ancor meno per chi viene da situazioni di collocamento in comunità.

Quali sono invece le tre garanzie processuali?

Sono il dovere per il giudice di tenere conto delle relazioni dei servizi sociali, l’obbligo di ascolto del minore e la convocazione a pena di nullità degli affidatari nei procedimenti sulla responsabilità genitoriale. Dal punto di vista tecnico, l’unica previsione veramente innovativa è la convocazione degli affidatari a pena di nullità. Certamente gli affidatari già prima avrebbero dovuto essere sentiti in quanto persone che condividono la quotidianità con il minore e che quindi possono dare le migliori indicazioni al giudice per capire la situazione del bambino, ma la mancanza di questo adempimento non configurava una nullità.

Se l’attenzione ancora non è ottimale nel caso di bambini e bambine, ragazzi e ragazze in affidamento familiare, lo è ancor meno per chi viene da situazioni di collocamento in comunità

Joëlle Long

Tanti affidatari però ancora lamentano “non ci ascolta nessuno”, “noi non siamo nessuno”…

Nessuno non direi. Guardando alla giurisprudenza, nelle banche dati, anzi è interessante notare che di tutte le disposizioni previste dalla legge 173 quella che ha attirato la maggiore attenzione da parte della Corte di Cassazione è proprio questa che riguarda l’ascolto degli affidatari, nel senso che ci sono state una serie di vicende in cui si è arrivati fino alla Corte di Cassazione perché gli affidatari non erano stati ascoltati. C’è una crescente consapevolezza che gli affidatari devono essere ascoltati. Sugli altri aspetti, in particolare sul mantenimento dei contatti, in realtà di giurisprudenza ce n’è pochissima.

Che cosa vuol dire?

Sto osservando un dato. La legge 173 che – anche nell’opinione pubblica – aveva un focus molto centrato sul riconoscimento di un diritto degli affidatari all’adozione, quindi sulla prima disposizione normativa. In realtà poi andando a vedere la giurisprudenza, la parte in cui si è appuntata l’attenzione dei giudici è quella dell’ascolto degli affidatari. Per quanto concerne invece sia l’implementazione della norma sui contatti sia quella sull’adozione da parte degli affidatari, è molto difficile capire quale sia il livello di implementazione reale. Possiamo dire dalla cronaca che almeno in alcune situazioni questa norma non ha avuto attuazione, o almeno non un’attuazione adeguata.

Però l’assenza di ricorsi a livelli superiori può significare pure che la legge è stata applicata ovunque in modo soddisfacente per le parti oppure semplicemente che si è insoddisfatti e non si è fatto ricorso…

È vero. Tuttavia, non penso che questa sia la ragione. Sentendo le professioniste e i professionisti, l’impressione è che ci sia ancora molto da lavorare perché questa legge richiede una formazione molto attenta per la magistratura, per l’avvocatura sia le professioni sociali e sanitarie, un’attenzione e una valutazione sull’opportunità di modificare prassi consolidate, per cui se in alcuni casi è evidente che le prassi sono illegittime e devono essere modificate, in altre la discussione è aperta ed è faticosa.

Per esempio quali sono gli ambiti in cui l’attuazione della legge è più faticosa?

Le faccio un esempio molto banale: la selezione e la formazione degli affidatari. Tradizionalmente è distinta, anche come contenuti, rispetto a quella delle famiglie adottive. Nel momento in cui è stata introdotta una “passerella” dall’affidamento familiare all’adozione, ci si chiede in che misura, anche nei percorsi di informazione e di formazione degli affidatari e poi di selezione debbano essere introdotti anche elementi che riguardano l’adozione: da un lato, ovviamente, occorre rendere edotte le famiglie affidatarie di queste nuove disposizioni normative, per cui devono sapere che nel caso di un affidamento familiare protratto potrebbe capitare che alla coppia che abbia i requisiti per l’adozione un giorno venga chiesto: “ma voi questo bambino o questa bambina sareste disposti ad adottarlo?”. Oggi in linea teorica l’affidamento familiare e l’adozione sono due cose diverse, rigidamente separate. La coppia affidataria dà la disponibilità per uno strumento di sostegno temporaneo. Invece il fatto che la legge stessa riconosca l’esistenza di questa passerella mette in crisi anche alcuni orientamenti tradizionali a livello di modalità operative dei servizi. Pensiamo alla valutazione delle coppie già affidatarie, che chiedono di diventare adottive: questa coppia affidataria, per il fatto di aver già accolto per molti anni il minore, deve essere valutata idonea all’adozione secondo le modalità e gli standard uguali a quelli di una coppia che non ha mai avuto un rapporto diretto con alcun minore? Ma io qui sto dando la mia disponibilità per adottare un minore specifico, con il quale già vivo, non più per un minore generico: anche dal punto di vista degli operatori dei servizi, occorre interrogarsi e capire come adattare le modalità tradizionali di valutazione a questa fattispecie, che è molto diversa rispetto a quella a cui ci aveva abituato la legge 184. Quindi sono passati dieci anni ma diciamo che su alcuni temi la riflessione è ancora aperta, anche perché occorre capire come mantenere l’impostazione ideale della legge 184 – a mio modo di vedere ancora molto attuale – ma allo stesso tempo occorre capire come adeguarla a una serie di istanze sociali che si sono venute a creare nella pratica. La realtà che ci dice che anche se l’affidamento è bianco e l’adozione è nera, ci sono moltissime situazioni grigie.

A tal proposito di recente il ministro Nordio, rispondendo a un’interrogazione parlamentare sulla vicenda di Luca, sembra aver suggerito che i genitori affidatari dovrebbero garantire già le caratteristiche necessarie per adottare (nel caso specifico l’età): cosa che fino ad oggi non è proprio perché affido e adozione sono distinte.

Come già detto non entro nella vicenda specifica, non avendo letto i provvedimenti giudiziari. Ma in linea generale posso ribadire quello che dicevo prima: quando devono essere scelti gli affidatari si richiede che siano in grado di accompagnare il minore per un po’ di tempo, quel tempo necessario alla famiglia d’origine a riacquistare sufficienti competenze genitoriali. Quindi ben può essere idonea una persona singola o una persona in là con l’età: persone che attualmente non hanno i requisiti per l’adozione. Questo perché la funzione dell’affidamento, così come l’ha intesa il legislatore della 184/1983, è molto diversa rispetto a quella dell’adozione. Si tratta appunto di uno dei nodi concreti che i servizi sociali e sanitari e la magistratura hanno affrontato fin dal 2015 nell’attuazione della legge 173/2015. La difficoltà era proprio quella di capire in che misura questa nuova legge sollecitava una revisione di pratiche consolidate nella formazione e nella valutazione delle famiglie affidatarie. Certamente oggi deve essere data alle famiglie affidatarie l’informazione preventiva sul fatto che se ci sono anche i requisiti per adottare, allora potrebbe essere richiesta la disponibilità all’adozione qualora il quadro cambi. Però, a mio modo di vedere, questo non dovrebbe portare ad una sovrapposizione tra affido e adozione: l’affidamento familiare è uno strumento di accoglienza temporanea e gli affidatari devono avere ben chiaro che l’esito fisiologico dell’affidamento è il ritorno in famiglia e che il suo obiettivo è quello di ricreare le condizioni per il ritorno del minore in famiglia. Poi stiamo parlando di vicende umane, quindi può avvenire che non ci si riesca e tutti sappiamo che gli affidamenti familiari durano ben più dei 24 mesi che è il termine massimo stabilito dalla legge, salvo proroga: basta guardare le statistiche.


Parlando di zone grigie, un nodo importante è l’affidamento a rischio giuridico.

L’affidamento a rischio giuridico è uno strumento che si è sviluppato nella prassi per i bambini e le bambine che presumibilmente saranno dichiarati in stato d’adottabilità: quando c’è stata già una sentenza di primo grado che dichiara lo stato adottabilità, si può individuare – qui sì – una coppia di affidatari che abbia anche i requisiti per l’adozione e che sia disponibile per adottare il bambino o la bambina se sarà dichiarato effettivamente adottabile. Questo ovviamente va nell’ottica della continuità degli affetti, perché si evitano al bambino gli spostamenti: l’affidamento a rischio giuridico è ben precedente alla legge 173.

Un altro nodo sono gli affidi sine die.

Gli affidamenti sine die erano un altro strumento, come l’affidamento a rischio giuridico, introdotto nelle prassi nel tempo per garantire la continuità degli affetti. Se c’è un bambino o una bambina che si trova bene in affidamento familiare e che non può rientrare nella famiglia d’origine, continuiamo a prorogare l’affidamento familiare. Sugli affidamenti sine die peraltro la riforma Cartabia ha messo una pietra tombale, nel senso che introducendo la norma che prevede una scadenza automatica dell’affidamento nel momento di scadenza del termine indicato nel provvedimento, è chiaro che l’affidamento sine die di per sé non è legittimo: questo non significa che nella pratica non si possa continuare a prorogare l’affidamento familiare se è nell’interesse del minore. A me sembra corretta però l’impostazione della legge 184: se un minore non può vivere nella famiglia d’origine e non c’è – secondo un giudizio di carattere prognostico da parte dei professionisti, della magistratura, dei servizi sociali e sanitari – valutazione favorevole al recupero delle capacità genitoriali in tempi ragionevoli, considerata l’età e la storia di vita del minore, la soluzione deve essere l’adozione, eventualmente aperta se ci sono rapporti affettivi significativi con alcuni componenti della famiglia di origine, e non un affidamento sine die.

Ritengo che l’impianto ideale della legge 184 e in particolare la distinzione ontologica tra affido e adozione sia condivisibile, al netto del fatto che l’articolo 6 andrebbe aggiornato. Personalmente considero che sia il tempo di rimuovere l’esclusione delle convivenze di fatto dall’accesso all’adozione

Joëlle Long

Queste zone grigie che ci sono nella realtà, impongono quindi un ripensamento delle pratiche ma anche una revisione della legge 184?

È in corso un processo di ripensamento di quelli che erano tradizionalmente alcuni tratti caratterizzanti dell’adozione, così come era stata pensata dal legislatore con la legge 184 e questo nel tempo sta portando anche a modifiche delle pratiche dei servizi sociali e dei servizi sanitari. Personalmente ritengo che l’impianto ideale della legge 184 e in particolare la distinzione ontologica tra affido e adozione sia condivisibile, al netto del fatto che l’articolo 6 della legge 184 andrebbe aggiornato.

Aggiornato in che modo?

Io per esempio considero che sia il tempo di rimuovere l’esclusione delle convivenze di fatto dall’accesso all’adozione, ancora più dell’esclusione delle persone singole recentemente avvenuta per le sole adozioni internazionali. E ritengo che continui a esserci una ragione per la quale i requisiti per l’affidamento familiare e per l’adozione siano diversi e quindi anche una ragione per la quale la selezione e la formazione delle persone che si rendono disponibili per l’affidamento familiare e per l’adozione debbano essere differenziate. Perché la funzione dei due strumenti è diversa.

Quindi, il bilancio sull’attuazione della legge 173/2015 qual è?

Il contenuto della legge, dal punto di vista teorico e ideale, è ormai ampiamente condiviso, addirittura al di fuori dell’ambito di applicazione dell’affidamento familiare. Questo è un aspetto curioso: la legge 173, paradossalmente, è invocata dalle Corti in temi che non c’entrano con l’oggetto della legge. Le pronunce che invocano questa legge in riferimento ad ambiti che non sono quelli individuati dalla legge 173, ossia la continuità affettiva per i minori in affidamento familiare, sono ben più numerose rispetto alle pronunce che si collocano all’interno dell’ambito operativo della legge. Penso a materie come l’adozione in casi particolari da parte di famiglie omogenitoriali, ma anche al tema dell’adozione aperta o di scissione della coppia genitoriale e affidamento dei figli. Del resto già nel 2017 per un convegno sull’attuazione della legge 173/2015 gli organizzatori avevano parlato di “eterogenesi dei fini”, pur con il punto interrogativo. È un fenomeno interessante: una legge che stenta ad essere applicata per quello che è il suo cuore e di cui invece ci si riempie la bocca per situazioni che certamente hanno a che fare con continuità degli affetti, ma non in relazione agli ambiti a cui il legislatore della legge 173 faceva riferimento.

È curioso: la legge 173 stenta ad essere applicata per quello che è il suo cuore, ma ce ne si riempie la bocca per situazioni che hanno sì a che fare con continuità degli affetti, ma non in relazione all’ambito a cui il legislatore faceva riferimento, che è l’affido

Joëlle Long

Ha usato il vero “stenta”: al di là della condivisione culturale, perciò, possiamo dire che l’attuazione della legge è ancora ridotta?

C’è una forte condivisione culturale e sociale sul contenuto della legge, ma direi anche che l’impressione – sia dai casi di cronaca, sia dalla lettura della giurisprudenza – è che implementazione non sia ancora adeguata. Giustamente c’è molta attenzione sulla questione processuale della convocazione degli affidatari, ma ci sono altri aspetti della legge che, come dicevo, sono ancora più importanti, che sono in particolare quello del mantenimento dei contatti nel caso di ritorno all’interno della famiglia d’origine: dovrebbero essere oggetto di attenzione maggiore proprio a livello di discussione e di confronto con le diverse professioni legali su quali sono gli strumenti attuativi idonei a garantire l’implementazione della legge. Consideri che a oggi, a quel che mi consta, solo la Regione Piemonte ha approvato un’apposita DGR che dà indicazioni puntuali ai servizi per l’attuazione della legge 173. Direi insomma che la legge 173 senza dubbio è una buona legge e continua a essere una legge molto attuale, forse troppo, nel senso che l’accusa di essere una legge inutile che tanti di noi le hanno mosso nel 2015 si è rivelata infondata. Forse in sintesi potremmo dire questo: la legge 173 è paradossalmente una legge inutile, ma molto attuale.

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Foto di Radu Prodan su Unsplash

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