Welfare

Contratto nazionale,il rinnovoche sogniamo

lavoro Un'analisi "dall'interno" dei temi in campo

di Redazione

Ad ogni rinnovo, il Contratto collettivo nazionale (Ccnl) delle cooperative sociali diventa un calice amaro. Se da una parte è una scadenza auspicata ed attesa per noi lavoratrici e lavoratori, dall’altra vi sono delle forti preoccupazioni per l’impatto dello stesso sui nostri bilanci.
Il precedente contratto (2002-2005) si è concluso dopo 14 mesi di contrattazione a cui va aggiunto l’anno di ritardo con cui fu presentata la piattaforma. Degli iniziali obiettivi di alto contenuto politico, come l’omogeneizzazione dei diversi contratti di lavoro nell’area del Terzo settore e la riforma del sistema di classificazione, non rimase nulla, rimandando ad un «serio lavoro di approfondimento congiunto sulle esigenze del settore attraverso una commissione di studio». Quindi la trattativa si concentrò sull’aspetto economico e di positivo emerse l’impegno delle parti ad arrivare gradualmente al superamento del salario convenzionale su tutto il territorio nazionale, su cui non aggiungo ulteriori commenti rispetto ai tentativi successivi di aggirarlo.
Alla fine il tutto si concluse con l’11,8% di aumento tabellare e l’impegno a mantenere attivo il lavoro delle delegazioni trattanti, per estendere e monitorare lo stato applicativo del contratto in tutti i territori del Paese anche attraverso il rafforzamento delle commissioni miste paritetiche e con l’ulteriore obiettivo di attivare territorialmente dei tavoli di lavoro per un rapido recepimento da parte degli enti pubblici degli aumenti contrattuali.
Voglio qui approfondire l’aspetto riferito al coinvolgimento degli enti pubblici ritenuti, anche dalle organizzazioni sindacali, attori fondamentali nel sistema delle regole in questo settore. Ho messo quindi a confronto il rinnovo del Ccnl con le clausole di revisione prezzi dei contratti in essere con i nostri committenti, prendendo in esame un campione significativo dei nostri primi dieci contratti.
I contratti analizzati (7 con amministrazioni comunali e 3 con aziende sanitarie non solo del territorio regionale) sono tutti triennali, tranne uno quinquennale, e contengono in linea generale la clausola di revisione prezzi che spesso richiama la legge 724/94 art. 44, ma con significative “manomissioni”. I contenuti dell’articolo della citata legge prevedono l’obbligo di revisione periodica del prezzo per tutti i contratti ad esecuzione continuativa stipulati dalle pubbliche amministrazioni sulla base di un’istruttoria operata dal responsabile del servizio. Per orientare le pubbliche amministrazioni nell’individuare il prezzo – comma 6 – l’Istat, avvalendosi ove necessario delle Cciaa, cura la rilevazione dei prezzi dei principali servizi acquistati dalla pubblica amministrazione. In mancanza di tale rilevazione, il dato comunemente più fruibile e utilizzato è l’indice Istat dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati (per abbreviazione indice Istat), non certamente quello più indicato.
Gli esiti sono abbastanza sconfortanti:
1. quattro contratti con amministrazioni comunali prevedono la possibilità di chiedere l’Istat dopo un anno anche se in taluni casi con scadenze prefissate;
2. gli altri cinque prevedono percentuali inferiori all’Istat, o riduzione proporzionale dell’importo del servizio, o prezzo fisso per tre anni, o franchigie che annullano la possibilità di applicazione della revisione prezzi perché vanno dal 2,5 al 5% (l’Istat media per l’anno 2007 è al 1,7% per cui per arrivare a superare il 5% ci vogliono un po’ di anni!);
3. un solo esempio virtuoso con un azienda sanitaria riporta una clausola di revisione prezzi indicando come parametro di riferimento il costo orario del lavoro del personale rilevato dal Ccnl di categoria e depositato presso il ministero del Lavoro.
Dopo questa sintetica disamina, aggiungo tre brevi considerazioni.
1. Questa comparazione rileva che la maggior parte delle clausole di revisione prezzi (con un unico caso virtuoso) sopra evidenziate sono impugnabili, ma non è nelle nostre intenzioni e possibilità contestare tutte le gare d’appalto le cui clausole, lo sappiamo bene, derivano anche dalla progressiva e impietosa diminuzione di risorse degli enti locali.
2. Se dovessimo ipotizzare, per estrema esemplificazione, un incremento del costo del lavoro pari al 15% e fare una proiezione sul bilancio di Itaca con le clausole di revisione prezzi come elencate, ne trarremmo un deficit annuo superiore ad un milione e mezzo di euro, a cui potremmo certo aggiungere qualche bel migliaio di euro in più per l’Ert del Veneto, dove la contrattazione di secondo livello è già consolidata, molto meno l’applicazione omogenea del contratto.
3. L’efficienza economica delle cooperative sociali, anche molto più grandi e più ricche della nostra, non è in grado di assorbire un rinnovo contrattuale (eccezionali e rari casi di virtuosismo in questo campo non andrebbero presi ad esempio), se non a condizione di chiedere lo stato di crisi piuttosto che di compromettere le capacità di investimento e miglioramento necessari oggi per lavorare con le persone sulle persone. L’applicazione di accordi di gradualità, alla fine obbligatori, salva le apparenze, ma svilisce l’obiettivo prioritario di far avere una dignitosa retribuzione ai lavoratori (debbo spiegarmi così la richiesta avanzata dalle organizzazioni sindacali sul recupero di un biennio del precedente contratto) e crea sul mercato situazioni incontrollabili e deregolamentate per tutto il periodo di applicazione della stessa. O almeno così è successo la volta scorsa.
Dobbiamo continuare il confronto non per smettere di bere dal calice ma per modificare l’amaro che vi è contenuto. Se il nostro settore viene ritenuto strategico per lo sviluppo del welfare, se la missione primaria di perseguire l’interesse generale della comunità non è derogabile per disposto legislativo, allora non è coerente che un rinnovo contrattuale si sostanzi con penalizzazioni economiche a carico dei bilanci delle cooperative sociali, scaricando così sugli stessi soci lavoratori il mantenimento del welfare. Né è più coerente applicare gradualità che hanno l’effetto di spostare solo più avanti il problema, mentre nel frattempo alcuni soggetti furbi, che passano da una regione all’altra, si fanno strada.
Alle organizzazioni sindacali e alle associazioni di rappresentanza chiediamo, questa volta, che la trattativa sul contratto si ampli di contenuti politici che possano accordare il riconoscimento dei diritti dei lavoratori ad avere la dignità economica che il lavoro sociale merita, con le prospettive e l’impegno della cooperazione sociale in relazione alle esigenze del welfare.
Gli atti necessari a garantire il rinnovo del contratto (e aggiungo anche l’applicazione del precedente) devono essere rilanciati con forza anche verso le amministrazioni regionali e comunali. Il coinvolgimento della Conferenza Stato-Regioni non può restare un generico preambolo da affidare eventualmente alle commissioni di studio, ma un’adesione alla trattativa determinante per la crescita del ruolo della cooperazione sociale e per il più ampio sviluppo del welfare che poi è, appunto, il benessere sociale.

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