Rotta balcanica
Così ci prendiamo cura della psiche violata dei ragazzi migranti
L'associazione Donk Hm ha sviluppato un servizio di assistenza psicologica e psichiatrica, per compensare le mancanze di un sistema di accoglienza che ancora non prevede l'obbligo di avere uno psicologo nelle strutture per minori stranieri non accompagnati, nonostante il grande bisogno. Affrontare in tenera - o tenerissima - età le situazioni complesse dei Paesi d'origine, le difficoltà del viaggio e le violenze della polizia di frontiera rende i minorenni che migrano soli particolarmente vulnerabili ai disturbi mentali, in special modo alla depressione e al disturbo post-traumatico da stress

«Non ho il coraggio di chiamare mia mamma. Abbiamo venduto tutto per pagare il mio viaggio in Europa e adesso non riesco a dirle che, dopo mesi, non ho ancora combinato niente». Sayed (nome di fantasia) è il figlio di un panettiere afghano, ucciso per la sola colpa di vendere pane agli americani. Anche Sayed stava per morire. I talebani l’avevano chiuso nel forno. A salvarlo, dei vicini compassionevoli. Il ragazzo, come molti altri, ha affrontato la rotta balcanica, tentato più volte il game – l’attraversamento del confine tra Bosnia e Croazia – ed è arrivato ancora minorenne a Trieste, dove è stato preso in carico dal sistema di accoglienza.
Se il suo corpo è guarito dalle ferite del viaggio, è la mente che porta le cicatrici più terribili. E non è l’unico in questa situazione: numerosi studi dimostrano che i minori stranieri non accompagnati sono più vulnerabili a causa di fattori individuali, come la ripetuta esposizione alla violenza e gli eventi traumatici, subiti prima o durante la migrazione. In particolare, i problemi più frequenti sono la depressione e il disturbo post traumatico da stress. Eppure, per le strutture che si occupano di ragazzi non ancora diciottenni non c’è l’obbligo di avere uno psicologo interno.
Minori stranieri, i più vulnerabili
«Tutto è cominciato nel 2020», racconta Francesco Zanuttin, infermiere professionale che fino a poco tempo fa lavorava per Duemilaeuno agenzia sociale, realtà che accoglie stranieri minorenni nella Provincia giuliana e che ora coordina i progetti in Italia di Donk humanitarian medicine, organizzazione di volontariato che offre assistenza sanitaria gratuita a tutte le persone, italiane o straniere, che non hanno accesso alle cure mediche, «quando c’è stata la pandemia e sono state istituite delle comunità per minori stranieri non accompagnati che prevedevano un controllo sanitario. I migranti che attraversavano Trieste come fantasmi, scendevano dal Carso e prendevano il treno per andare a Milano, improvvisamente sono diventati visibili, perché la polizia doveva rintracciarli e fermarli. I minorenni venivano affidati alle cooperative; arrivavano dalla Bosnia a piedi, avevano tantissime ferite, anche gravi, alle gambe. Per cercare di impostare un sistema di assistenza che potesse rispondere ai bisogni di queste persone, abbiamo attivato un progetto che prevedeva un monitoraggio sanitario sistematico».
Dai dialoghi coi ragazzi è emerso che a tormentarli non erano solo le ferite visibili: le violenze che avevano subito nei Paesi di partenza – soprattutto per chi partiva da realtà instabili come il Pakistan o l’Afghanistan – o dalla polizia di frontiera provocavano loro sofferenze psicologiche enormi. «A differenza di quello che si può pensare, i minori non facevano nulla per nascondere il loro disagio», continua Zanuttin «a volte dovevamo interrompere i colloqui perché si mettevano a piangere. Un episodio mi ha molto scosso. Erano arrivati tanti ragazzi e dovevo far loro le domande del monitoraggio. Uno di loro, che parlava molto bene l’inglese, mi aiutava facendomi da interprete, in modo serio e pacato. Tra i quesiti, chiedevo anche se avessero subito violenze. A un certo punto la persona che traduceva è scoppiata, non ce l’ha fatta più. Mi ha detto: “Ma perché continui a chiederci se abbiamo subito violenze? Tutti noi abbiamo subito violenze, tutti siamo stati denudati, picchiati, maltrattati dalla polizia al confine”». Molti, come Sayed, si sentivano sopraffatti dalle emozioni, delusi dall’impossibilità di raggiungere i propri obiettivi, in difficoltà perché non riuscivano a essere all’altezza delle aspettative della propria famiglia.

L’assistenza psicologica di Donk
«I nostri progetti nascono dai bisogni della strada», spiega Stefano Bardari, presidente di Donk. «Negli ambulatori cerchiamo di raccogliere dati per capire come migliorare il nostro lavoro, quali sono le necessità. Nel tempo è emerso che c’era un grande disagio psicologico e che i più fragili erano i minori. Prima di tutto perché, non essendoci l’obbligo, spesso nelle strutture non c’è uno psicologo ad assisterli, anche se hanno affrontato dei traumi importanti in un’età molto delicata». È per questo che Donk ha ampliato la sua offerta con un servizio di assistenza psicologica e psichiatrica, che si avvale di due psicologi, due psicoterapeuti e tre psichiatri, per il quale l’organizzazione ha sottoscritto collaborazioni con le più grandi realtà dell’accoglienza per minori stranieri non accompagnati della provincia di Trieste.
Il progetto, che da qualche tempo si è aperto anche agli adulti, ha tra i collaboratori una quindicina di mediatori, che possono tradurre circa venti lingue. «Non è facile la terapia con un mediatore, perché ci sono alcune tecniche, come il tono di voce e le pause, che non puoi utilizzare», afferma Luca Burigana, psicologo che da un anno collabora con Donk proprio per questo servizio. «Però è anche una risorsa preziosissima e fondamentale, che spiega alcuni elementi che altrimenti non riusciremmo a capire. Le prime volte sentivo dei racconti allucinanti, come quello di una persona afghana che doveva sposare una donna, ma è stata costretta a fuggire. La famiglia di lei aveva contro una famiglia di talebani che sono andati a casa del futuro marito a minacciarlo e lui ha dovuto scappare, c’erano dei sicari che lo seguivano. A me sembrava che il ragazzo tendesse alla psicosi, invece il mediatore mi ha spiegato che era una storia che poteva benissimo essere avvenuta in Afghanistan. In altri casi, chi traduce dà una mano per l’espressione delle emozioni; da noi abbiamo tante sfumature per parlare della psiche, mentre in altri Paesi, come il Pakistan, la visione è molto dicotomica. Sto bene quindi sono felice, sto male quindi sono triste».
Lo psicologo si trova spesso davanti a casi di disturbo post traumatico da stress, con sintomi tipici e conclamati, ma anche con manifestazioni più sfumate. «In realtà è una diagnosi calderone», dice Burigana. «I ragazzi partono da Paesi in cui c’è già una situazione molto complessa, per un viaggio durissimo che dura generalmente anni, in cui entrano in contatto con mafia, passeur, persone poco raccomandabili. Il game viene riportato spesso come avvenimento traumatico: lo si prova una media di cinque o sei volte, quando si viene intercettati e rimandati indietro c’è violenza fisica oltre che psicologica. Una scena che mi hanno riportato più volte è quella di essere legati assieme ad altre persone catturate, che una alla volta vengono picchiate, con la paura quando si avvicina il proprio turno». C’è chi ha una capacità maggiore di lasciarsi i vissuti difficili alle spalle e riesce a mantenere una prospettiva legata al proprio obiettivo, chi invece sviluppa dei problemi, come i pensieri intrusivi, l’ansia, i disturbi del sonno. A maggior ragione se l’esperienza traumatica avviene in tenera – o tenerissima – età.

Non solo diciassettenni
Quando si parla di minori stranieri non accompagnati, ci si immagina dei sedicenni o dei diciassettenni, ma in realtà ci sono anche ragazzini molto più piccoli. In più, se l’arrivo avviene a sedici anni, il viaggio può essere iniziato uno, due o tre anni prima.
«Il più giovane che ho conosciuto era un ragazzino afghano di 10 anni, che era arrivato da solo», dice Zanuttin. «La mamma, che era in un campo profughi in Turchia, l’aveva fatto viaggiare attraverso la rotta balcanica per raggiungere uno zio che si trovava a Trieste, al silos (l’edificio in rovina nei pressi della stazione in cui fino all’anno scorso si accampavano, all’addiaccio, in migranti appena entrati in Italia, ndr), e aspettava il nipote per andare in Germania, dove c’era un altro zio. Il bambino è stato intercettato dalla polizia: quando l’abbiamo visto era affranto, voleva la mamma, era in una situazione veramente difficile per lui. La cooperativa si è attivata per organizzare delle attività per lui; la vicenda ha avuto un lieto fine: la madre e gli altri fratellini hanno potuto venire in Italia con un’azione ministeriale grazie agli avvocati delle organizzazioni umanitarie».
È la prima volta nella storia che c’è un movimento di questa portata di ragazzi – anche molto giovani – da soli, in condizioni così estreme. «Stiamo svolgendo una specie di gigantesco esperimento antropologico sulla pelle delle persone», commenta Zanuttin. Se le migrazioni hanno sempre fatto parte della storia dell’umanità, quello dei minori stranieri non accompagnati è un fenomeno tutto nuovo. «Siamo di fronte a una popolazione che ha passato l’adolescenza, che sappiamo essere un periodo veramente molto delicato, in viaggio, tra i campi profughi, assieme a pari, con legami che si formano e si disfano in maniera fluida, in un’atmosfera di totale incertezza», conclude l’infermiere. «Come saranno queste persone da adulte?».
In apertura, persone migranti alla stazione di Rijeka-Fiume. Foto di Francesco Cibati
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