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«Così ho chiuso i writer in una stanza»

di Redazione

Non solo le strade del Cairo. Ormai la street art egiziana ha conquistato anche le gallerie d’arte, come la Townhouse Gallery, che ha ospitato la mostra corale This is not graffiti, inaugurata lo scorso settembre (www.thetownhousegallery.com). Gli artisti più famosi della scena artistica underground sono stati invitati a lasciare la propria traccia su muri completamente liberi. Abbiamo raggiunto la curatrice della mostra, Soraya Morayef, per farci raccontare questa nuova realtà underground e il suo legame con la rivoluzione. Ecco cosa ci ha raccontato.
Com’è stata accolta questa mostra, quali sono state le reazioni dei visitatori?
Diciamo che la mia opinione è un po’ troppo di parte… di sicuro nessuno verrebbe mai a dirmi in faccia che la mostra ha fatto schifo, ma quello che posso dire di sicuro è che ha provocato forti reazioni. Da un lato l’entusiasmo di molte persone che si è diffuso soprattutto attraverso i social media, dall’altra recensioni di critici professionisti che hanno mosso rilievi alla mostra. Ma l’idea era proprio sperimentare, e vedere cosa sarebbe successo.
Era preoccupata che l’arte dei graffiti potesse perdere spontaneità e la propria valenza sociale e politica, una volta esposta al chiuso, in una galleria d’arte?
Più che preoccupata ero curiosa, avevo delle domande a cui speravo che i lavori degli artisti e le reazioni dei visitatori avrebbero potuto dare risposte. La mia opinione è che far parte di una mostra non può togliere autenticità a un writer. Le opere di Banksy, uno dei più famosi esponenti della street art, vanno spesso in mostra. Ovviamente, c’è chi lo critica perché troppo commerciale, ma qui in Egitto è un idolo per i graffitari, che si ispirano a lui. Io credo che queste siano occasioni per innescare un dialogo. Recentemente ho visitato una mostra di graffiti a Sidney, in cui erano esibiti i lavori di 150 artisti da tutto il mondo, e che nulla ha tolto al valore e al messaggio politico delle opere.
Come si sono mossi i graffitari a This is not graffiti? Come hanno utilizzato lo spazio che avevano a disposizione?
C’è chi ha dato la sua interpretazione, chi ha espresso un commento esplicito sulla mostra, mentre altri si sono limitati a creare un graffito senza porsi troppi problemi. Alcuni lavori volevano scioccare o provocare, come quelli di Hend; altri attaccare direttamente la galleria, Adham, o la mostra, come Sad Panda, cosa che trovo divertente, perché alla fine lo strumento per esprimere questo dissenso era proprio un graffito. Alcuni lavori erano ispirati a graffitari famosi, come quelli di El Teneen, e altri erano una copia esatta della loro arte di strada, come nel caso di Charles Akl e Amr Gamal, le cui opere su un muro del Cairo erano state imbrattate con della vernice nera che e qui sono state riprodotte. Purtroppo, senza conoscere questo antefatto molti non hanno potuto afferrare il messaggio sotteso…
Lei crede che i graffitari stiano avendo davvero un ruolo nel rendere consapevoli gli egiziani del loro diritto alla protesta?
Certamente. Per esempio esiste un’iniziativa, la “Mad Graffiti Week”, organizzata da alcuni giovani graffitari egiziani per sensibilizzare sul tema dei crimini commessi dal Consiglio supremo delle forze armate in molte città del Paese. E lo strumento per portare avanti questo discorso sono proprio i graffiti.

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