Giuseppe Carini
Così padre Puglisi mi salvò dal diventare un “uomo d’onore”
Il 15 settembre 1993 veniva ucciso padre Pino Puglisi, il parroco di Brancaccio che sfidò la mafia sorridendo ai bambini. Un sacerdote - poi riconosciuto beato - che ha cambiato la vita di tante persone. Fra loro, Giuseppe Carini, all'epoca giovane volontario in parrocchia e oggi testimone di giustizia per avere denunciato i mandanti e gli esecutori dell'omicidio: «Non credo che la mia sia stata una scelta coraggiosa, ma solo il giusto riconoscimento per quanto ha fatto per tanti ragazzi come me. Abbiamo tutti la responsabilità di non tradire il suo messaggio»

«Don Puglisi è stato un sacerdote esemplare, dedito specialmente alla pastorale giovanile. Educando i ragazzi secondo il Vangelo vissuto, li sottraeva alla malavita e così questa ha cercato di sconfiggerlo uccidendolo. In realtà, però, è lui che ha vinto con Cristo risorto». Così Papa Francesco ricordava padre Pino Puglisi in occasione della cerimonia di beatificazione del 25 maggio 2013, celebrata al Foro Italico di Palermo, in un grande evento che ha chiamato a raccolta la comunità, migliaia di fedeli e non solo, a conclusione del lungo percorso che ha portato alla sua beatificazione, avvenuta il 28 giugno 2012 con decreto concesso da Papa Benedetto XVI per il martirio “in odium fidei”.
Padre Puglisi non sarà mai possibile dimenticarlo. Non lo sarà soprattutto perché è il primo martire della Chiesa Cattolica a essere stato ucciso dalla mafia. Non lo dimenticheranno soprattutto coloro che sono stati al suo fianco e che, grazie a lui, hanno rivoluzionato la loro vita.
Fra loro, Giuseppe Carini che, dopo avere denunciato i suoi assassini, è entrato nel programma di protezione dei testimoni e da anni vive in località protetta.
«La prima volta che vidi Padre Puglisi? Ci trovavamo in quella che un tempo era la sacrestia della parrocchia di San Gaetano. Bassino, gli occhi grandi, un po’ stempiato»: Giuseppe Carini pesca nella memoria che non accenna a perdere i suoi colori. «Abbiamo parlato per più di un’ora. La cosa che mi stupì è che era lui a volere raccontare a me del quartiere. Io che ci ero nato, a Brancaccio, e che vivevo a pochi passi da lì. Parlammo a lungo di tante cose, poi, alla fine, mi disse: “Sai, qui ci sono molti bambini che trascorrono quasi tutto il tempo per strada, i genitori aggiungono poco alla loro vita; sarebbe importante poterli occupare, come dire, proponendo loro alcune attività in parrocchia”. E io gli risposi: «Appunto, qui non c’è niente per loro». Perché non c’era veramente niente, si giocava per strada, in effetti, sostanzialmente come facevo io. Se giocavamo a pallone, i pali della porta erano due sacchetti pieni di spazzatura. Abitavo a 200 metri dalla parrocchia e sapevo bene di cosa parlasse. Gli risposi che frequentavo la facoltà di Medicina e non avevo tempo per altro, ma lui insistette. Gli dissi che ci avrei riflettuto. Ci ripensai veramente e, non lo avrei mai creduto io stesso, alla fine gli dissi che, almeno una volta alla settimana, per un’ora, avrei potuto dedicare il mio tempo alla parrocchia».
Il non volersi impegnare non era, però, dovuto solo al fatto che gli studi universitari erano impegnativi …
Avevo solo 21 anni nel ’91, quindi ero molto giovane. Da un lato effettivamente era vero che, essendomi iscritto all’università, ogni mattina e qualche pomeriggio ero impegnato con le lezioni. Non avevo molto tempo. In verità, però, c’erano anche le mie frequentazioni con gli ambienti mafiosi. Il contesto non era assolutamente dei più facili».
Poi che cosa succede?
Diciamo che la cosa mi prese perché, in ogni momento che trascorrevo in parrocchia con i ragazzi, con i bambini, stavo bene. Mi sentivo veramente una persona diversa, più serena, molto più gentile. Dentro di me cominciava a venire meno un po’ quella sensazione che non so se fosse angoscia… forse direi di pesantezza. E poi l’attività funzionava, i bambini partecipavano numerosissimi: c’era un movimento, all’interno della parrocchia, nel quartiere, veramente stupendo. Anche gli adulti si erano avvicinati, avevano trovato in padre Puglisi una nuova guida, anche per affrontare i problemi del quartiere. E non erano solo i problemi legati alla presenza mafiosa, ma quelli del vivere quotidiano: la mancanza della scuola media inferiore e di quella superiore, di un distretto socio-sanitario, di un centro di aggregazione per gli anziani, dell’asilo nido e tanto altro.
Cosa succede, nel frattempo, a quella vita legata agli ambienti di mafia?
Fu ovviamente la parte per me, più difficile, perché in tutti gli anni che ho avuto la possibilità di stare a fianco di padre Puglisi, ho dovuto tenere un piede dentro la parrocchia e un piede ancora dentro quella cultura e quella mentalità mafiosa. È stato difficilissimo, straziante. Mi sentivo in colpa per questo mio cambiamento in atto, per cui cercavo di evitare il più possibile gli sguardi di rimprovero. Continuavo, quindi, a frequentare o a giocare a calcetto con i mafiosi che ogni settimana si ritrovavano in un campetto dello Sperone, quartiere limitrofo a Brancaccio (anch’esso ad alta densità mafiosa, nda). Alla fine della partita, solitamente si andava tutti insieme a mangiare in una pizzeria a circa 30 metri dalla caserma dei Carabinieri, cosa che fa capire quanta paura avessero a farsi vedere apertamente tutti insieme. Ovviamente erano cene luculliane, annaffiate da champagne per tutti.
Una vita che, per lei, prima era piena di fascino…
Per me era il punto di arrivo di un percorso. Mentre le persone che hanno una vita normale cercano di vivere al meglio in condizioni di legalità, di democrazia, per me il meglio era diventare un uomo d’onore. Come ho raccontato altre volte, il mio punto di riferimento era un cugino di mia madre, un boss di Cosa Nostra poi scomparso per lupara bianca nella guerra tra i corleonesi e i palermitani. Fin da piccolo, ho sempre visto questa persona, ma anche altri parenti mafiosi, come un “dio in terra”. Adoravo e invidiavo la forza, la potenza e la stima che gli venivano portate.
Sarà padre Puglisi poi a diventare il suo punto di riferimento, il suo modello?
In realtà, più che padre Puglisi è stata, sembrerà banale, la fede. Ricordo che, a un certo punto, nei momenti di preghiera, cominciai a sentire dentro di me un’energia, una forza che non avevo mai conosciuto prima d’allora. Ci fu un momento in cui, mentre si cantava e si pregava, mi sentii bruciare dentro. Un fuoco. Allora, andai da padre Puglisi e gli dissi: “Guardi, non mi sento affatto bene, mi sento bruciare”. Lui mi guardò senza parlare. “Padre io non sto affatto bene”, ripetei. E lui, con le battute che gli erano solite o anche solo con il suo ampio sorriso, continuava a tranquillizzarmi. Ma quel fuoco interiore io lo sentivo per davvero, non era una mia immaginazione, un’esagerazione. Percepivo davvero questo calore. Improvvisamente capii di essere una persona nuova. Ero cambiato, la mia vita era cambiata.
Un cambiamento che fa a un certo punto i conti con l’assassinio di padre Puglisi…
L’omicidio di padre Puglisi fu un momento altamente drammatico per me, perché mi ritrovai solo in questo mio cammino. Dico solo perché io l’avevo fatto insieme a lui. Era stato il mio padre spirituale, trascorrevamo molto tempo a parlare. A volte ci parcheggiavamo con la sua macchina sotto casa mia e chiacchieravamo per ore e ore. Ascoltava tutte le mie angosce, le mie frustrazioni, tutti i miei desideri, i miei sogni. Quando seppi del suo barbaro assassinio, fu per me il trauma più grande che avessi potuto vivere. Non lo potrò dimenticare mai. Soprattutto quando penso all’autopsia.
Perché propro l’autopsia?
Ho saputo di quel che era successo intorno alle 7 e mezza della mattina del 16 settembre (padre Puglisi viene ucciso con un colpo di pistola alla nuca alle 20.40 del 15 settembre, il giorno del suo compleanno, nda). Mi ero appena alzato. Me lo comunicò mio padre che era appena sceso da casa per andare a lavorare. Prendo la Vespa e corro all’Istituto di medicina legale che frequentavo, dove incontro il mio professore che mi consiglia di non scendere. Lui era già passato da questa stessa esperienza con il professor Paolo Giaccone, docente di Medicina Legale e consulente per i magistrati, di cui era allievo: anche Giaccone era stato ucciso dalla mafia l’11 agosto del 1982. Ovviamente io non lo ascoltai e scesi. Entrai e mi avvicinai al corpo di padre Puglisi, sulla cui testa c’era una grossa benda. Scoppiai a piangere come un bambino. Ho pianto tanto, tanto, tanto.
Tutto questo da solo?
Sì, da solo in quel corridoio buio che portava alla cella frigorifera. Ho chiuso la porta e mi ci sono appoggiato, continuando a piangere. Poi, però, decisi di farmi forza perché immaginavo che sarebbero arrivati in tanti, infatti così fu. Cominciarono anche le telefonate, per esempio quella di Carmelo Cuttitta, che allora era il segretario dell’arcivescovo di Palermo, il Cardinale Salvatore Pappalardo, per sapere quando sarebbe stata fatta l’autopsia. Ho impedito che entrassero anche alcuni fotografi che volevano riprendere un momento così delicato, che per me doveva essere contraddistinto dal silenzio del rispetto. Le uniche foto che sono state fatte sono quelle di routine, quelle date dal protocollo dell’autopsia giudiziaria. Nulla di più, nulla di meno.
Nessuno appartenente agli ambienti ostili a padre Puglisi si è avvicinato in quel frangente o anche dopo?
In quel momento nessuno. Alcuni problemi ci sono stati in seguito alla sua morte perché i Graviano, coloro che hanno ordinato il suo omicidio, pensavano che, una volta scomparso, sarebbe tornato tutto come prima, che noi saremmo scomparsi, dispersi e rientrati a casa. E invece no, assolutamente. Padre Puglisi aveva cambiato tante, troppe persone.
Padre Puglisi cambia ulteriemente la sua vita perchè nel 1995 lei entra nel programma di protezione dei testimoni per avere denunciato mandanti ed esecutori dell’omicidio.
Sono andato alla procura della Repubblica e ho parlato direttamente con Giancarlo Caselli, dicendogli tutto quello che doveva sapere. Era tutto risaputo, non c’era mistero su chi avesse deciso e agito. Quel che nessuno poteva sapere era se ci sarebbe stato o no qualcuno parlasse, che denunciasse. Essendo sparito un borsello, volevano fare credere che l’omicidio fosse stato il frutto di un furto: che vergogna. Fare passare atti di questo genere come il risultato di un’onorabilità che non ha dietro alcun coraggio. Non c’è onore nel violare la sacralità della vita dell’uomo. Queste persone sono solo il perfetto esempio della miseria umana.
Che piega ha preso la sua vita dopo essere andato via da Palermo?
Ho avuto problemi a continuare i miei studi in Medicina e Chiurgia, la mia passione, perché c’era sempre un problema con la mia identità. Ovviamente avevo sempre nomi di copertura, così non potevo avere i libretti universitari e tante altre cose che diventavano montagne quasi impossibili da superare. Alla fine ho lasciato perdere. Un sogno non realizzato. Almeno sino a ora.
Lei ha cambiato identità numerose volte, dovendosi trasferire per motivi di sicurezza in diverse città. Che portato emotivo ha tutto questo?
La sensazione è quella di non essere. Se qualcuno mi chiede, gli rispondo che “sono uno, nessuno e centomila”. Come salire su un palcoscenico e assumere un ruolo. Quando, poi, scendi da quel palcoscenico, sei un altro. Che oggi tu mi chiami Mario, Fabrizio o in un altro modo, per me è la stessa cosa. Giuseppe viene fuori quando parlo con un amico, quando mi fanno una bella intervista raccontando la verità. Giuseppe esiste solo tra le mura di casa.
Qualcuno si chiede se la famiglia che il testimone di giustizia si è creato nella località diversa da quella natale sia a conoscenza di tutto…
Ci sono persone che hanno una famiglia che è totalmente all’oscuro della vera identità di quel marito, di quel padre. Spesso devi tenere tutto dentro perché c’è chi teme che la persona che ti ha conosciuto nella tua nuova vita e di cui ti sei innamorato possa non comprendere. La paura di perdere l’altro ti obbliga a mentire sulla tua vita precedente. Un’angoscia che accresce tante altre angosce che viviamo per la nostra scelta.
Rifarebbe tutto quello che ha fatto?
Assolutamente sì. Sono fermamente convinto di aver fatto la scelta più giusta, in linea con la mia storia personale, ma anche in segno di riconoscenza per tutto quello che mi ha dato padre Puglisi. Non tornerei mai indietro, ho accettato il prezzo di tutto questo, ma quello che mi brucia è che quando andrò in pensione, io come tutti gli altri testimoni di giustizia, moriremo di fame. Da quando, nel 2001, è stata varata la legge 45 che istituisce la figura del “testimone di giustizia”, le cose sono migliorate, ma ci sono ancora molte difficoltà che portano all’isolamento dei testimoni. Molti di noi vengono lasciati soli, pensate che non abbiamo neanche diritto di voto e la pensione per noi è solo un miraggio. Il nostro destino è contraddistinto da un’enorme incognita a causa di questa mancanza di radici che investe anche la vita lavorativa. Un tema che la Commissione nazionale antimafia dovrà fare proprio, per convincere il Governo ad affrontare un problema che non è sconosciuto, anzi, ma del quale è facile disinteressarsi. Lo Stato deve smetterla di nascondersi dietro i cavilli, la burocrazia, e prendere in mano questo problema. Sbaglia chi pensa che la guerra alla mafia sia finita.
Palermo e Brancaccio sono nel suo futuro?
Non so se tornerò mai, non dipende solo da me, è qualcosa da decidere con molte altre persone. Quando, però, penso a Palermo, il mio pensiero va sempre a Brancaccio. So che il quartiere è cambiato moltissimo, ci sono molti più servizi, ma il rischio forte è che, in mezzo a tutte queste cose nuove, ciò che si rischia di non trovare è padre Puglisi. C’è troppa gente che millanta amicizie, che si arroga il diritto di esprimere ciò che desiderava lui. Lo usano impropriamente. Bisognerebbe tutelare la sua memoria sia dai mistificatori sia dai milantatori: in questo, tutta la società civile e la Chiesa di Palermo hanno una grande responsabilità. A Palermo, alla diocesi e ai cittadini, oggi rimane la responsabilità di non dimenticare quella che è stata la vera essenza del messaggio di Puglisi.
Nella foto di copertina Padre Pino Puglisi (al centro). Alla sua sinistra Giuseppe Carini. Era il 1993 e quel momento seguiva l’incendio del furgone della ditta che stava ristrutturando la parrocchia (foto fornita da Pino Martinez, uno dei collaboratori di padre Puglisi)
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