Cooperazione internazionale

Costruire la pace con uno scatto: il progetto che dà voce alle donne della Costa Swahili

Le donne della costa swahili sfidano gli stereotipi di genere e raccontano la loro idea di pace attraverso la fotografia, grazie a workshop dell’ong WeWorld. Una selezione delle foto realizzate durante i laboratori è in mostra al Festival di Fotografia Europea di Reggio Emilia, in esposizione fino all’8 giugno

di Maria Marcellino

«Non avrei mai pensato di poter tenere una macchina fotografica in mano e scattare una foto». Per le donne che vivono lungo la Costa Swahili, la striscia di terra che si estende tra Kenya, Tanzania e Mozambico affacciandosi sull’Oceano Indiano, la fotografia è un affare da uomini. Anche altre cose lo sono: sedersi in un bar, giocare a scacchi in strada, guidare una motocicletta.

Lo racconta la fotografa kenyota Halima Gongo, che, tra febbraio e marzo 2024, ha guidato un workshop di fotografia rivolto a un gruppo di donne di età compresa tra i 18 e i 35 anni che vivono nella contea di Kwale, sulla costa sud-orientale del Kenya. Nello stesso periodo, laboratori analoghi si sono svolti anche nel distretto di Mkinga, nella regione di Tanga, in Tanzania, con la fotografa tanzaniana Gertrude Malizeni, e a Cabo Delgado, nel nord del Mozambico, con la fotografa mozambicana Nelsa Guambe.

Tutte le iniziative sono state dirette dalla fotografa Myriam Meloni e fanno parte del progetto Kujenga Amani Pamoja (che in lingua swahili significa “Costruiamo la pace insieme”), promosso dalla ong WeWorld e cofinanziato dall’Unione Europea. Una selezione delle foto realizzate durante i laboratori è in mostra al Festival di Fotografia Europea di Reggio Emilia con il titolo Women see many things e sarà in esposizione fino all’8 giugno.

«Quando abbiamo cominciato la formazione, le partecipanti si sono avvicinate alla macchina fotografica con una certa insicurezza. Poi l’entusiasmo è cresciuto e hanno imparato cose che non avrebbero mai pensato di imparare», spiega Halima Gongo. L’esperienza in Tanzania è stata molto simile. «All’inizio nessuna voleva stare dietro la macchina fotografica», aggiunge Gertrude Malizeni. «La soddisfazione più grande è stata vederle cambiare e scoprire che la fotografia non serve solo a scattare ritratti, ma può anche essere uno strumento per raccontare storie».

Alle partecipanti è stato chiesto di pensare a che cosa significa la pace, per loro, nei luoghi in cui vivono. Le storie che hanno scelto sono diverse ma hanno tutte qualcosa in comune: l’emarginazione delle donne. Per le abitanti della contea di Kwale, in Kenya, la pace ha la forma di una rottura. «Qui le donne hanno espresso un forte desiderio di rompere gli stereotipi di genere. Secondo loro, gran parte dei conflitti nella zona deriva da una profonda disuguaglianza e trascuratezza nei loro confronti. Abbiamo riflettuto insieme su come mostrare tutto questo ed è emersa l’idea di mettere a confronto il tempo delle donne con quello degli altri membri della comunità». Hanno osservato le attività svolte nell’arco di una giornata e si sono rese conto di avere maggiori responsabilità e pochissimo tempo libero a disposizione rispetto agli uomini. Per questo hanno deciso di utilizzare le immagini per capovolgere la propria realtà.

Le foto scattate in quest’area ritraggono donne che giocano a scacchi in strada, che si siedono nei bar, che praticano la boxe – attività normalmente riservate agli uomini – nel tentativo di appropriarsi degli spazi pubblici a loro preclusi. «Quando siamo entrate nei bar per scattare le fotografie, gli uomini sono stati accoglienti», precisa Halima. «Ma solo perché era un’eccezione rispetto alla normalità».

In alcune fotografie ricorrono i motivi del kanga, un indumento femminile tradizionale caratterizzato da motivi vivaci attraverso cui le donne comunicano messaggi alla propria comunità. In una di queste compare una ragazza in sella a una motocicletta. «Ci ha confidato che ha sempre desiderato imparare a guidarne una, ma la sua famiglia le ripete che non è una cosa da donne. Durante il workshop è salita per la prima volta su una motocicletta. “Quindi è così che ci si sente”, ha detto con euforia».

Circa 150 chilometri più a sud, nel distretto di Mkinga in Tanzania, la pace somiglia alle donne che raccolgono le alghe. «Abbiamo iniziato la nostra discussione riflettendo su ciò che porta via la pace in questo luogo», spiega Gertrude. «Le partecipanti hanno subito pensato al conflitto tra le coltivatrici di alghe e i pescatori locali». In questa zona la coltivazione e il commercio delle alghe sono tradizionalmente affidate alle donne, mentre la pesca è compito degli uomini. I due gruppi condividono gli stessi spazi ed entrano spesso in conflitto. «Capita che i pescatori, al rientro dal mare, passino di proposito con le barche sopra le coltivazioni di alghe, danneggiandole».
Per raccontare questa storia le donne si sono fotografate durante l’attività di raccolta. «Ci hanno anche parlato dei benefici del commercio delle alghe– continua Gertrude – e da lì è nata l’idea di una campagna visiva per mostrare il valore della loro attività alla comunità. Ci siamo dette: se le persone capiscono quanto le alghe siano importanti, forse smetteranno di distruggere le coltivazioni».

Il progetto ha aperto un dialogo tra le parti. Le fotografie sono state presentate durante un incontro pubblico, a cui hanno partecipato anche alcuni pescatori e rappresentanti del governo locale, per discutere apertamente del conflitto e sensibilizzare sull’importanza delle alghe. In molti, compreso il governo, hanno ammesso di non essere pienamente consapevoli del valore economico e sociale della coltivazione delle alghe. Alcuni pescatori si sono impegnati pubblicamente a non danneggiare più le coltivazioni. «Per realizzare queste foto – continua Gertrude – abbiamo visitato le piantagioni, ascoltato le loro storie e lavorato insieme. Non è stato semplice perché nei luoghi da cui vengo io, avere l’opportunità di parlare tra donne davanti agli uomini è complicato. Abbiamo dovuto chiedere loro di lasciarci sole».  A questo punto interviene Halima: «Gli uomini hanno tanti posti dove possono incontrarsi e discutere. Perché si sentono sempre minacciati quando siamo noi donne a farlo?».

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