A un anno dalla caduta dell’ex presidente Hosni Mubarak, aspettative, paure e contraddizioni si mescolano in una transizione lunga e faticosa. Molti iniziano a chiedersi se lo slogan della rivoluzione del 25 gennaio 2011 ? «libertà, dignità, giustizia sociale» ? avrà mai una risposta. Lo sciopero generale proclamato l’11 febbraio, anniversario della destituzione di Mubarak, è stato un flop. Pochi giorni prima, uno studente dell’Auc, l’università americana del Cairo, mi aveva consegnato un volantino che chiamava alla mobilitazione generale. L’iPhone che teneva nell’altra mano, però, parlava più del volantino. Il fatto che i figli dell’élite possano permettersi un cellulare da 600 euro mentre i medici protestano a causa di salari che non superano i 200 euro mensili, dà la misura delle enormi diseguaglianze ancora presenti nella società egiziana.
Certo nessuno pensava che in un anno l’Egitto sarebbe diventato un paradiso. Ma forse nessuno prevedeva di dover affrontare una crisi economica che sta diventando sempre più insostenibile. I prezzi dei beni di prima necessità, dal pane ai trasporti, sono aumentati sensibilmente. Migliaia di posti di lavoro sono stati spazzati via dalla crisi del turismo, polmone economico di un Paese privo di grandi risorse naturali. «Fai una buona pubblicità all’Egitto quando torni in Italia», mi raccomanda un tassista, «perché se continua così è finita».
Voglia di normalità
Malgrado le difficoltà, tuttavia, nessuno sembra rimpiangere il passato. «Prima c’erano più certezze, quello sì: ma che certezza è un posto pagato una miseria? Che certezza è un presidente che non se ne andrà mai? Soprattutto, prima non c’erano prospettive per il futuro», afferma deciso Tamer, un giovane autista sulla trentina. La libertà è stata conquistata una volta per tutte. Ma ha richiesto un prezzo altissimo, e ora, tra la gente, si avverte anche una gran voglia di tornare alla normalità. Persino il volto romantico di Piazza Tahrir, divenuta un simbolo planetario, si è come consumato in questi mesi: il presidio permanente all’interno della grande rotonda è ormai una tendopoli lacera e polverosa, popolata da attivisti ma soprattutto da disperati senza un tetto sotto cui dormire, che qui hanno almeno trovato accoglienza. Molti vendono thè, carne o noccioline, tutti si sforzano di tenere pulita la piazza. Alcuni stand mettono in mostra il merchandising della rivoluzione: portachiavi, adesivi, bandiere, ci sono souvenir per tutti i gusti. Un pupazzo a grandezza d’uomo è appeso per il collo a un semaforo: «Quella è la fine che farà Hosni Mubarak», mi assicura un ragazzino che non avrà più di 15 anni. È un avvertimento sinistro. E per molti, la paura che la violenza diventi una spirale incontrollabile è concreta.
«Lo vedi quello che è successo in Libia? E quello che sta succedendo in Siria? Noi non vogliamo fare quella fine», dice Huda, un’impiegata pubblica. È per questo che la maggior parte della gente non condivide la logica dello scontro frontale con i militari, invocata dalla piazza. «In fondo abbiamo eletto un parlamento, nei prossimi mesi voteremo il presidente. È giusto che la democrazia segua i suoi tempi», mi spiega Gamal. Ma i giovani attivisti non mollano: «La gente ha semplicemente paura», dice Iman, avvolta in un chador azzurro, «ma non possiamo darla vinta ai militari. Devono andarsene loro, non noi».
Sfiducia e paura
Il senso di esasperazione nei confronti della violenza e dei morti è palpabile tra la gente. La repressione ha fatto centinaia di vittime, e i volti dei “martiri” ? molti poco più che adolescenti ? sono impressi nei graffiti disseminati un po’ ovunque. «L’insicurezza è oggi la principale preoccupazione degli egiziani», mi dicono Sally e Naguib, cristiani copti, «e non è solo una questione che tocca i cristiani o le minoranze, è un problema per tutti». «Scippi, furti, rapine, non sapevamo cosa fossero fino ad alcuni mesi fa, oggi li leggi tutti i giorni sui giornali», aggiunge Jihen. In realtà, il Cairo dà l’impressione di essere sempre una città sicura, almeno per gli standard di una grande metropoli. Senza dubbio, nel bene e nel male il pugno di ferro sotto cui era tenuto il Paese fino a poco più di un anno fa si è molto allentato, ma soprattutto la violenza della repressione ha completamente eroso la fiducia dei cittadini nelle forze dell’ordine.
Mahmoud Salem, un blogger tra i più famosi, ha scritto recentemente: «Un anno fa tutto il Paese era pieno di sogni e di speranza per il futuro, ma nel giro di un anno queste speranze e questi sogni sono andati in fumo. La gente ha visto i propri cari nei tribunali militari, gli amici mutilati e i figli uccisi. Il senso di sicurezza è quasi del tutto svanito, e il fatto che nessun cambiamento e nessuna reale riforma abbia avuto luogo ha lasciato la gente disillusa e amareggiata».
Eppure, a un anno da quel 25 gennaio, non rimangono solo rassegnazione e pessimismo. Smaltita l’ubriacatura della rivoluzione, si sente forte la sete di futuro. «È come se avessimo abbattuto un vecchio edificio e stessimo appena gettando le fondamenta di quello nuovo. Siamo appena all’inizio», ribadisce Gamal, mentre Salim, maestro elementare, mi fa un esempio concreto: «Abbiamo chiesto di farla finita con la corruzione, ma sai quanto ci vorrà perché ogni singolo funzionario abbandoni una certa abitudine alla “mancia”? Passeranno molti anni prima di vedere i frutti di questa rivoluzione, ma penso che la strada che abbiamo preso sia giusta».
Si può usare la Carta docente per abbonarsi a VITA?
Certo che sì! Basta emettere un buono sulla piattaforma del ministero del valore dell’abbonamento che si intende acquistare (1 anno carta + digital a 80€ o 1 anno digital a 60€) e inviarci il codice del buono a abbonamenti@vita.it