Volontariato
Di csr buona ce nè una sola
Per lEconomist è la Csr win-win. Ecco di cosa si tratta. E quali sono invece le altre tre tipologie che fanno danni. Tanti o pochi...
di Redazione
Che cosa si intende per csr? E la stessa definizione di responsabilità sociale d?impresa non è così impegnativa da costringere le aziende comunque a barare, appiccicando un?etichetta alle proprie azioni? La seconda sezione del dossier dell?Economist cerca di capire qual è il contenuto vero del concetto di csr.
Da un lato, per csr si intendono alcune politiche aziendali che qualsiasi società ben gestita dovrebbe mettere in atto, essendo ispirate a principi di etica commerciale minimi. Queste comprendono: non mentire ai propri dipendenti; non versare tangenti e gestire la società con una capacità di previsione che vada oltre le due settimane. Dall?altro lato, con la csr si vogliono invece indicare politiche più ambiziose e distintive, che operano una differenziazione tra società leader e società lente nella valutazione del tempo e delle risorse impiegate per attività a scopo caritatevole – ad esempio-, per l?assunzione di posizioni vincolanti rispetto a investimenti di tipo etico o ancora per iniziative di protezione dell?ambiente che vanno oltre la richiesta del legislatore. In altre parole, il lato più morbido del mondo della csr comprende pratiche che non avrebbero alcun bisogno della speciale tutela di questa sigla; sono, infatti, perfettamente in grado di giustificarsi da sole e in modi molto più semplici, collocandosi, ad esempio, come semplici standard di decenza comune ovvero come limiti necessari perché un manager possa affermare di gestire in modo soddisfacente la propria società. Il punto qui non è tanto se le attività in se stesse abbiano un senso, quanto se siano degne di vedersi attribuire la dicitura di ?responsabilità sociale aziendale?; vale a dire, se meritino lo speciale elogio che tale etichetta vuole conferire.
C?è poi l?altro capitolo della csr ?solida?, quella cioè che eccede gli standard di comune decenza. Si tratta di iniziative particolari in termini di beneficenza o di attenzione allo sviluppo sostenibile. Ma il giornale inglese pone una domanda che viene ritenuta chiave: questo causa un miglioramento sul lungo termine della redditività dell?azienda? E ancora, questo fa effettivamente progredire il bene pubblico in un senso più ampio?
I manager di successo normalmente sono in grado di garantire entrambe le cose, ovviamente: rendendo un?azienda redditizia fanno progredire anche il bene pubblico. Esamineremo questa realtà più avanti. Alcune pratiche di business che vengono spesso definite (forse in modo fuorviante) di csr ricadono effettivamente in questa categoria: portano utili e causano un contemporaneo progresso del benessere della società, consentendo che si instauri una reputazione di rapporti onesti con i dipendenti, i fornitori e i clienti, ad esempio. Questa è la csr di tipo win win; quella che meno piace alla società civile. Sarebbe meglio chiamarla semplicemente ?buona gestione?.
Oltre alla csr win win, ne esistono altre tre, scrive l?Economist: una ?presa a prestito? riconducibile alla filantropia,una ?perniciosa? che provoca aumento degli utili a discapito del benessere pubblico e una ?delirante? che comporta sia riduzione degli utili che del benessere pubblico. Si tratta di categorizzazioni estremamente provocatorie. Ecco come il settimanale inglese le spiega.
Sulla csr win-win o ?buona gestione?c?è molto da dire. Molti dirigenti impegnati nel movimento csr meritano una lode per aver provato e portato attenzione su nuove pratiche che portano a risultati così positivi. Le loro idee potranno non essere applicabili a tutte le società, e forse anche a molte, ma il loro successo in casi particolari è indubbio. Uno degli evangelizzatori più entusiastici e persuasivi della csr win-win è Marc Benioff, direttore generale di salesforce.com, una società per i servizi al business su base internet di notevolissimo successo. Nel suo libro Capitalismo compassionevole spiega, tra l?altro, come un buon vivere comune aziendale possa essere utilizzato per attirare a sé, mantenere e motivare i collaboratori migliori. La sua società incoraggia, infatti, il proprio staff a dedicare tempo ad attività di beneficenza, a spese della società. Al fine di consentire tutto ciò, garantisce una grande flessibilità negli orari e nelle condizioni di lavoro. Il carattere dell?azienda, come è percepito dai dipendenti e dai clienti, è fortemente associato a questo impegno nei confronti delle buone cause. (…) Questo tipo di filantropia aziendale, che sposa la buona causa con un modo intelligente di selezionare e motivare il personale, sta indubbiamente prendendo piede.
La filantropia aziendale, secondo l?Economist invece o è un modo di farsi pubblicità o di riscattare la cattiva reputazione di cui l?azienda soffre. Ma i vantaggi commerciali di un simile atteggiamento sono tutti da verificare, mentre resta certo che la beneficenza, trattandosi di soldi sottratti agli utili e agli azionisti è una «virtù presa a prestito». Diverso invece il caso degli imprenditori che fanno filantropia con le proprie fondazioni.
I migliori filantropi del mondo, basti pensare alla Bill & Melinda Gates Foundation, che detiene un fondo di 27 miliardi di dollari, non spendono gli utili delle società cui sono associati, ma il proprio patrimonio personale. Questa è la vera filantropia ed è la sola apprezzabile, specialmente se i finanziatori si prendono cura che le somme siano spese in modo saggio, come fanno le maggiori fondazioni private. La filantropia finanziata con gli utili di società di proprietà pubblica, dal punto di vista etico, è una cosa ben diversa. è probabile che gli azionisti preferiscano spendere i propri soldi in giuste cause, a loro piacimento, piuttosto che vedere gli amministratori, da loro stessi stipendiati, prendere su di sé gli onori di tale impegno.
L?Economist quindi passa in rassegna gli altri due tipi di csr già etichettati in maniera catastrofica come ?perniciosa? e ?delirante?. Come esempio viene presa la tendenza a puntare molto sul riciclo dei rifiuti. Si tratta di uno dei punti cruciali dell?analisi.
Non vi è dubbio che in alcuni casi abbia senso, dal punto di vista del business, riciclare. Questo ricade sotto la voce ?buona gestione?, perché causa un aumento degli utili e (in particolare per questa ragione) un miglioramento del benessere pubblico. Il punto è, però, che il riciclo non è gratuito, ma costa parecchio in termini di sforzo e di altre risorse. I rifiuti devono essere raccolti, trasportati ed elaborati, prima di poter essere reinseriti nel processo produttivo. I costi di questa procedura possono essere ingenti. Se questi costi privati superano l?importo del risparmio privato, gli utili ne patiranno e lo stesso accadrà, con tutta probabilità, per il benessere pubblico.
I sostenitori del riciclo diranno che quanto detto sopra è ottuso e falso, perché non considera come sia importante mantenere le risorse naturali. La scarsità di un bene (carta da giornale) e della risorsa naturale necessaria a produrlo (alberi) non si riflettono nel prezzo pagato, dicono. Quindi un calcolo a parte dei costi e dei benefici non è sufficiente. L?utile, che è rappresentato da beneficio privato meno costo privato, può scartare il riciclaggio, mentre un calcolo sociale più ampio dei costi e dei benefici mostrerà un bilancio differente. Poiché la società ha un interesse collettivo al mantenimento delle risorse, un interesse che non è riportato nei prezzi di mercato delle materie prime, il riciclo potrà tranquillamente ridurre l?utile, ma con un contemporaneo aumento del benessere pubblico. Ecco di cosa tratta la csr, così come la filantropia aziendale.
Il problema è che il concetto secondo il quale il mercato delle materie prime non riflette la scarsità di queste è sbagliato. Nel mercato delle materie prime i prezzi riflettono perfettamente la scarsità eventuale di queste. L?andamento globale a lungo termine di calo dei prezzi delle materie prime, nonostante la crescita dell?economia mondiale, non è dovuto alla difficoltà del mercato di riflettere il calo di offerta e l?incombente penuria. I mercati delle materie prime sono, nella maggior parte dei casi, assolutamente efficienti e previdenti. I prezzi di queste, calcolati negli ultimi decenni, hanno registrato un calo dovuto al fatto che il progresso ha portato una produttività sempre crescente con un conseguente aumento dell?utilizzo di tali risorse. In altre parole, l?offerta ha superato la domanda. Ove, stranamente, questo non è accaduto, i prezzi sono cresciuti, rendendo così il riciclo una scelta commercialmente sensibile. In complesso, la Terra non sta esaurendo le proprie risorse; dove questo sta accadendo, i prezzi lo riflettono; quindi, la normale sfida degli utili è molto utile per le società che devono stabilire se riciclare. Non è necessario andare ad inneggiare al riciclaggio come standard morale per un comportamento responsabile. E se invece il farlo consente di evitare che le aziende pensino costantemente ai costi che sostengono, ne discende un effettivo danneggiamento sociale. L?utilizzo delle materie prime è un?area in cui tipicamente il vantaggio privato si allinea con quello pubblico.
La conclusione del capitolo viene dedicata alle pressioni cui le aziende sono sottoposte per salvaguardare le condizioni di lavoro nei Paesi del Terzo mondo dove si insediano.
Molte ong si oppongono alla prassi di assumere mano d?opera nei Paesi in via di sviluppo in termini che sono comunque significativamente meno generosi di quelli garantiti ai colleghi dei Paesi più ricchi, perché lo ritengono un ritorno allo schiavismo e comunque un?operazione ?ingiusta?. Le società sotto osservazione sono state dissuase dall?investire in operazioni di produzione in Paesi in via di sviluppo quali l?India e il Bangladesh o hanno semplicemente deciso di interrompere tali operazioni, visto che venivano accusati di essere degli sfruttatori di manodopera. E dicono, da bravi cittadini aziendali, con le mani incrociate dietro la schiena, che non lo faranno più. Molte ong stanno richiedendo standard di manodopera che tengano considerazione di tale ?best practice? e insistono perché vengano in futuro inseriti in specifici trattati di commercio. Questo mette in evidenza come politiche di questo tipo (specialmente se imposte a tutte le società come parte di futuri accordi) non sono nell?interesse dei lavoratori, come dichiarano. L?investimento diretto straniero nel Terzo mondo è noto per essere uno dei migliori prodotti dello sviluppo economico: basta guardare la Cina. Anche quando gli stipendi e gli altri termini offerti ai lavoratori locali sono molto più bassi rispetto a quelli offerti ai colleghi nei Paesi ricchi, sono di regola di gran lunga migliori di quelli attuati dall?economia locale; è per questo che la domanda di posti di lavoro nelle multinazionali straniere nei Paesi poveri è così alta.
L?Economist accenna poi provocatoriamente a un paradosso: la pressione delle ong, salvando la reputazione, salvaguarda gli utili delle aziende che verrebbero danneggiati da una caduta di immagine, ma colpiscono la possibilità di maggiore benessere per i lavoratori dei Paesi poveri. In conclusione: la csr è viziata da un approccio economico troppo confuso.
Se l?opinione pubblica decide di punire le banche o le altre società di servizi che decidono di trasferire i propri call-center in Paesi off-shore, dando la preferenza ai concorrenti di queste, potete stare certi che tali società, sempre a caccia di utili, interromperanno questa procedura. Che poi tale risposta faccia progredire il bene sociale in senso più ampio è ancora da stabilire. Se i consumatori rifiutano l?outsourcing perché comporta una diminuzione della qualità del servizio, benissimo: questo è il corretto funzionamento del mercato. Ma se il pubblico rifiuta l?outsourcing perché ritiene erroneamente che i lavoratori in call-center stranieri siano sfruttati, non ci siamo: questo è il mercato che cade in errore a causa di un?opinione falsa. Da un certo punto di vista, questo conferisce ai sostenitori della csr un buon vantaggio: (…) un clima di accoglienza e appoggio da parte dell?opinione pubblica è necessario. Ed è per questo che la battaglia delle idee è così importante. La csr assume varie forme. Se la si considera dal punto di vista delle motivazioni, questa potrà essere applicata in buona o in cattiva fede, per convinzione, per noia o per vanità; può essere seguita da leader bene intenzionati o da cinici boss che vogliono solo fregare i propri clienti. E comunque, immancabilmente, e pericolosamente, la csr è sempre sostenuta da approcci economici troppo confusi.
Responsabilità sociale- La storia di un acronimo
La responsabilità sociale d?impresa, più comunemente denominata all?anglosassone Corporate social responsibility, è un?espressione ?contenitore? con la quale si indicano molteplici aree di interesse dell?attività aziendale: struttura di governance, partnership con le organizzazioni non profit, tutela ambientale, rispetto dei diritti dei lavoratori, filantropia e molte altre cose ancora. Alcuni sostengono che sia connaturata all?esistenza stessa dell?impresa (famoso l?assunto secondo il quale «ciò che fa bene all?impresa fa bene alla società»), altri la fanno risalire, almeno per quanto riguarda l?Italia, alle iniziative pionieristiche di Adriano Olivetti, altri ancora ne fanno coincidere la data di nascita con le prime iniziative messe in campo dalle multinazionali per ?porre riparo? alle denunce delle ong sul fronte, per esempio, del mancato rispetto dei diritti umani e delle norme sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Molta chiarezza ha contribuito a fare, in proposito, la Commissione europea che il 18 luglio 2001 ha pubblicato il libro verde sulla csr, nel quale sostiene che «le imprese sono sempre più consapevoli del fatto che la responsabilità sociale può rivestire un valore economico diretto. Anche se la loro responsabilità principale è quella di generare profitti, le imprese possono al tempo stesso contribuire ad obiettivi sociali e alla tutela dell?ambiente, integrando la responsabilità sociale come investimento strategico nel quadro della propria strategia commerciale, nei loro strumenti di gestione e nelle loro operazioni. Di conseguenza, la csr deve essere considerata come un investimento e non un costo». Coerentemente con le direttive europee, due anni fa il ministero del Welfare italiano ha lanciato un programma di csr, incentrato sulla volontarietà dell?impegno sociale delle aziende e nel corso del 2005 nascerà una fondazione che avrà lo scopo di promuovere la diffusione dei temi della Csr.
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