Famiglia

Dobbiamo rimpiangere gli istituti?

La tavola rotonda sull'accoglienza dei bambini ai tempi della crisi ha messo in luce un paradosso preoccupante: dopo tanto lavoro per creare un'alternativa agli istituti, oggi che le comunità sono messe sotto assalto, si richia di tornarvi

di Redazione

Federico Zullo ha 33 anni e fa l'educatore. È responsabile dell'area neomaggiorenni dell’Istituto Don Calabria di Ferrara e nel 2010 ha fondato la prima associazione in Italia che si occupa di neomaggiorenni usciti dalle comunità, Agevolando, di cui è anche presidente. Lui stesso è stato un ragazzo fuori famiglia. Venerdì 12 aprile, alla tavola rotonda "L'accoglienza dei bambini ai tempi della crisi" il suo intervento è stato dirompente. Eccolo.

«Ci lamentavamo degli istituti, ci lamentavamo del clima freddo e autoritario che vigeva in quei contesti, ci lamentavamo del gran numero di bambini e ragazzi che erano costretti a stare tutto il giorno con le stesse persone a fare le stesse cose alle stesse ore. Ci lamentavamo, appunto, dell’istituzionalizzazione in quanto processo di assoggettamento di un minore ad una dimensione omogeneizzante e non centrata sui bisogni individuali dei singoli individui. Li abbiamo chiusi il 31 dicembre del 2006.
Fin dagli anni Settanta (in particolare in Piemonte e in Emilia Romagna) abbiamo lavorato per costruire contesti alternativi, di piccolo numero, centrati su una dimensione e un clima familiari.Ci abbiamo messo trent’anni a chiuderli (o meglio, a sancirne la chiusura). Ora assistiamo ad un paradosso: dover “lottare” per vincere i tentativi di chiusura di ciò che abbiamo appena faticosamente finito di realizzare.

Negli anni Novanta ho vissuto per 4 anni in una comunità, 2 in casa famiglia, 3 in un appartamento per “grandicelli”, fino all’età di 19 anni. La comunità si chiamava “comunità” ma era ancora un piccolo istituto: eravamo in trenta. Ho fatto fatica, soprattutto i primi anni, ma poi mi sono ambientato e ho sperimentato buone relazioni con adulti affidabili e l’amicizia (oserei dire quasi fratellanza) con i miei compagni, che frequento ancora oggi e coni quali stiamo costituendo un gruppo associativo a Verona, mia città natale. Quando ho iniziato nel 2001 a lavorare come educatore per l’Opera Don Calabria a Ferrara (dopo aver passato tutte le difficoltà della neomaggiore età post comunità) ho scoperto piano piano che c’erano contesti di accoglienza residenziale di piccolo numero, da 6 a 10 ospiti. Poi ho capito che in tali contesti si potevano costruire relazioni con adulti affidabili con più facilità perché maggiore è il tempo che loro possono dedicarti. Ho anche capito che costavano di più.

Le comunità poi le ho studiate e ho fatto una tesi comparativa tra comunità e istituto. Ho scoperto quanto può esserci il rischio che, per facilitare il proprio lavoro di educatore, vengano utilizzate modalità istituzionali-istituzionalizzanti anche nella relazione adulto-minore in comunità. Ho pensato che, in funzione di un miglioramento della qualità degli interventi, fosse necessario promuovere una cultura relazionale dell’accoglienza in comunità. Ho approfondito i miei studi, ho fatto ricerca in tal senso. Ho creduto molto e credo ancora nella capacità e nella necessità di offrire interventi efficaci, realmente riparativi e supportivi. Ho poi riscoperto il dolore e la fatica della conclusione del percorso residenziale, la conclusione dei rapporti con i i propri compagni di percorso e con i propri educatori. Una fatica “riscoperta” da educatore. Non sopportavo l’idea che i ragazzi dovessero trovarsi nelle condizioni di solitudine, assenza di supporto, paura, rischio di vanificare i risultati positivi del percorso precedente, e così, con altri ex-ospiti come me, abbiamo fondato l’Associazione Agevolando con l’idea di fare rete per far fronte a tale rischio, con l’idea di dar voce ai ragazzi e di promuovere la loro partecipazione, con l’idea di promuovere e valorizzare il lavoro positivo fatto quotidianamente da tanti educatori attraverso le testimonianze di chi ha vissuto in comunità. Ma anche con l’obiettivo di “denunciare” eventuali situazioni di rischio per i bambini e ragazzi accolti.

Non avrei però mai pensato di trovarmi oggi a dover lottare per dimostrare l’importanza e la necessità degli interventi di comunità. È un paradosso…con tutta la fatica che abbiamo fatto. Non avrei mai pensato di dovermi scontrare con la disperazione di servizi sociali che ci cercano perché neomaggiorenni in gravi condizioni sociali e personali, hanno bisogno di aiuto, di un sostegno, un aggancio. Non mi riferisco però ai neomaggiorenni ex-ospiti delle comunità, ovvero a quello di cui ci occupiamo normalmente. Faccio riferimento ai neomaggiorenni  e giovani-adulti “mai allontantati”, quelli che avrebbero avuto bisogno di aiuto molto tempo prima. Che risposte dobbiamo inventarci per loro? Quali servizi? Giovani a rischio devianza, delinquenza, giovani borderline a rischio psicopatologico, ragazzi depressi, abbandonati, dimenticati nelle “terre di nessuno”, quelle di cui non ci si occupa».
 

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