A Cornaredo, alle porte di Milano, per il servizio sanitario c’è un camice bianco arabo e musulmano.
Con 850 pazienti, quasi tutti italiani. Che a Natale hanno smesso di regalargli champagne e salame…di Susanna Tamimi
Lo attendo di fronte alla saracinesca del suo ambulatorio di Cornaredo, una cittadina alla periferia di Milano. L’elegante insegna in ottone comincia a raccontarmi un po’ della sua storia: «Dr. Khader Hamdi Abdel Baset, medico chirurgo specializzato in pediatria».
Una voce allegra e cordiale improvvisamente mi distrae: il dottor Abdel Baset è puntualissimo al nostro appuntamento.
La sala d’attesa è ancora vuota. Due file di sedie colorate sono disposte a semicerchio attorno ad un ampio tavolino su cui poggiano fogli di carta da parati, pastelli a cera e pennarelli. Il dottor Abdel Baset spalanca la porta del suo studio e, come da tradizione mediorientale, mi offre una tazza di thé. Ci accomodiamo alla sua scrivania.
Lo studio ricorda tanti altri ambulatori medici: tante cartacce, un lettino, un computer, una bilancia ed uno scaffale su cui spiccano grossi volumi di medicina. Titoli sconosciuti, in inglese e in italiano, che affiancano un piccolo Corano. Osservo le pareti alla ricerca di qualche altro simbolo religioso, ma il mio sguardo viene catturato dalla moltitudine di doni dei suoi pazienti appesi qua e là: cartoline, disegni, collages…
850: è il numero dei pazienti in cura da lui. La maggior parte italiani, ma anche albanesi, cinesi, rumeni e di altre nazionalità. Tra questi, anche cinquanta persone provenienti dal mondo arabo. Mi racconta delle mamme e delle loro paure, di come, in fondo, si assomiglino tutte. La prima preoccupazione, di fatto, è la felicità ed il benessere dei loro bambini. Poco conta la diversa dieta alimentare o l’originalità delle singole culture.
Khader è arrivato in Italia nel 1968 ed ha studiato a Parma. Ricorda gli anni universitari col sorriso. Anni di festa, rivoluzione e amicizia. Non fece fatica a sentirsi a casa. Oggi, afferma, gli italiani vivono l’arabo in modo differente. Alcuni gli hanno domandato dopo l’11 settembre di vedere il suo certificato di laurea, altri gli hanno chiesto se c’erano altri pediatri – italiani – nella zona. Episodi impensabili prima.
Il dottore sorride e non si scoraggia. Sa che la maggior parte dei suoi pazienti gli è affezionata e lo rispetta ed è anche consapevole che i vari dibattiti sull’Islam hanno portato la gente a conoscere meglio questa religione. Per Natale, per esempio, i suoi clienti erano soliti regalargli cestini con bottiglie di champagne e salumi. Regali dall’aspetto invitante di cui lui non poteva godere. Negli ultimi tre Natali, invece, ha ricevuto solo cestini “halal” con bottiglie d’olio, formaggi e panettoni. Gli chiedo se si sente italiano e risponde di sentirsi un medico, un arabo, un musulmano e un italiano. Si sente un uomo che conserva, come tanti altri musulmani, molteplici identità.
Qualcuno potrà dire che quest’uomo rappresenta un’eccezione tra tante altre storie differenti: storie di mancata integrazione, di chiusura e fanatismo. Rispondo che l’eccezione in questo caso è lo stato di “straniero”. Essere in un Paese diverso e riuscire a conciliare la propria cultura con il contesto circostante non è mai un processo semplice. Lo dimostrano le varie “little Italy” o “China town” sparse per il mondo, ma non esiste un modo unico di essere straniero.
Tra i musulmani, c’è chi si aggrappa alle tradizioni e sceglie di non abbracciare il presente. C’è chi decide di rinnegare tutto ed assumere una nuova identità. Ma c’è anche chi, come il nostro medico, opta per la via di mezzo e sceglie di camminare verso una vera integrazione; un’integrazione basata non sull’alienazione, ma – come da definizione – sull’interazione con l’identità altrui e la partecipazione attiva alla vita comunitaria.
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