Non profit

Dynamo camp, ovveromille ettari di filantropia

Minori Nell'Appennino toscano un "paradiso" per piccoli convalescenti e le loro famiglie

di Redazione

È stata «formata per fare il capo». E lo ha fatto, dirigendo180 persone in Ibm, dove ha lavorato per otto anni. Prima, Mba e master con l’Unione europea. Poi, altri anni in Fiat, nella direzione commerciale e nel customer relationship nel settore automotive. Insomma, un curriculum di tutto rispetto, che farebbe la gioia di qualsiasi head hunter. Eppure, al colmo di tutto questo percorso, a Serena Porcari mancava qualcosa. O meglio, come racconta, «non sapevo se era lì, nell’industria, che mi volevo vedere per sempre». Quindi, come spesso capita nella vita quando c’è odore di svolta, ecco l’incontro con un gruppo di amici storici, tra cui Enzo Manes, presidente della Intek, che stava per dar vita a una nuova esperienza, la Fondazione Dynamo. E scatta la proposta: «Perché non ci dai una mano nella fase di start up?».
Vita: Così è diventata consigliere delegato. Perché ha detto sì?
Serena Porcari: Per diversi motivi. Mi intrigava la possibilità di creare una fondazione di impresa, parte di un gruppo di private equity. Nel 2004, quando ho iniziato, era un settore poco esplorato in Italia. Poi c’era la sfida professionale di far partire un progetto di filantropia: mettere in piedi il primo camp italiano di Hole in the Wall, l’organizzazione creata negli Usa da Paul Newman (vedi box). Mi entusiasmava l’idea di lavorare con gli Stati Uniti, che avevo imparato a conoscere in otto anni di lavoro in un’azienda americana. Infine, non meno importante, volevo lavorare non solo per il profitto ma mettere a frutto le mie competenze per dare un beneficio a persone che avevano bisogno.
Vita: È stato un passaggio indolore?
Porcari: Ho lasciato il mio posto di lavoro dopo riflessioni molto serie, e mi sono catapultata in pochi giorni da una struttura con 12mila dipendenti a un ufficio in cui eravamo in tre. Era l’aprile di quattro anni fa, e stavamo definendo la volontà di fare il camp, cioè un luogo in cui bambini affetti da patologie gravi o croniche possano essere ospitati gratuitamente per momenti ricreativi e di socializzazione. Ricordo il gran lavoro per mettere insieme alcuni attori professionali pro bono: studi legali, un’agenzia di comunicazione, head hunter, società di consulenza…
Vita: Qual era l’idea?
Porcari: L’obiettivo era costruire in tre anni il primo campo Hole in the Wall in Italia, facendo diventare la Fondazione Dynamo “motore di filantropia”, cioè capocordata di progetti non profit che potessero essere riconosciuti come best pratice internazionali e, ovviamente, rispondessero a un bisogno nazionale. Altro requisito fondamentale era che il progetto fosse economicamente sostenibile, e lo fosse nel tempo. Tenendo a mente questi capisaldi, nell’ottobre 2005 arriviamo alla conclusione di dedicarci solo al camp di Hole in the Wall. Allora l’organizzazione di Paul Newman si stava espandendo fuori dagli Stati Uniti: grazie al sostegno di due governi nazionali, erano sorti due camp in Europa, uno Irlanda e un altro in Francia; il nostro è stato il primo caso al mondo di progetto totalmente imprenditoriale, nato non da una famiglia che aveva perso un figlio o da un medico, ma da un gruppo di imprenditori.
Vita: Si trattava dunque di identificare un “dove”. Come siete arrivati in Toscana, dove ha sede il camp?
Porcari: In quel periodo il gruppo Intek aveva acquisito la maggioranza di un gruppo industriale che possedeva una bellissima fattoria in una tenuta di 1.500 ettari. La tenuta è stata trasformata in un’oasi del WWF e la cascina ristrutturata dall’impresa proprietaria, il gruppo Kme, leader mondiale nella trasformazione del rame, secondo le regole del Dynamo camp. Per la Kme si è trattato della prima iniziativa di corporate philantropy. È stato quindi un progetto win-win, dove abbiamo guadagnato tutti.
Vita: Quando siete partiti?
Porcari: Il camp ha aperto l’estate scorsa, nel luglio 2007, con due sessioni-pilota di 7 giorni ciascuna, prima per bambini dai 7 ai 13 anni e poi per adolescenti dai 14 ai 16, malati di patologie oncoematologiche gravi, ma anche di tumori solidi e di altre malattie croniche ematologiche, come la talassemia, vari tipi di anemie, l’emofilia. Il business plan prevede una crescita sia del numero di bambini ospitati per settimana, sia del numero di settimane all’anno, sia delle patologie. Oggi la capacità massima che possiamo offrire è di 80/90 bambini e altrettanti adulti; finora ne abbiamo accolti fino a 45 in quattro sessioni per 34 giorni totali. L’anno prossimo faremo di più e di meglio. Anzi, siamo già lavoro per arrivare all’obiettivo finale: è ospitare mille bambini l’anno non solo d’estate, ma anche in autunno e primavera.
Vita: Un vero e proprio cantiere…
Porcari: Sì, un cantiere. Le faccio un esempio: noi arriviamo alle famiglie attraverso i dirigenti medici ospedalieri. Abbiamo contattato circa 50 primari di oncoematologia in tutta Italia, e altri ne raggiungeremo, per farci conoscere a quante più famiglie possibile. Altro esempio, il personale. Al camp lavorano circa dieci ragazzi per tutto l’anno, tutti tra i 24 e i 30 anni, cui si aggiungono lo staff stagionale e i volontari, che frequentano il camp per una settimana. Lo staff stagionale segue un corso di formazione di 8 giorni, tranne che per alcune funzioni più complesse, per cui ne servono 15, i volontari seguono un corso di 36 ore… Insomma, tutto richiede un’attenta pianificazione e una ancora più attenta revisione.
Vita: Quali sono i cambiamenti che apporterete l’anno prossimo? Quali le nuove sfide?
Porcari: I cambiamenti sono necessari. Come per qualunque progetto appena partito, nulla è scolpito nella pietra. Le nostre energie organizzative sono in campo per ottenere l’obiettivo finale, che è “sempre più bambini, che stanno sempre meglio”. Quest’anno ci siamo accorti che sta crescendo la percentuale di piccoli malati stranieri, quindi uno dei punti su cui stiamo lavorando è come trattare la diversity culturale e aiutare gli ospiti del camp a stare insieme in modo positivo. Prevediamo anche di aprirci a ragazzi di altri Paesi europei e del bacino del Mediterraneo.
Vita: Organizzazione, business plan, revisione… Quanto della sua esperienza manageriale precedente ha tradotto nella fondazione? Quali le differenze?
Porcari: Dal punto di vista metodologico nessuna differenza: c’è un budget chiaro, studiato, rivisto ogni tre mesi, e dobbiamo rispettarlo. Non siamo un’azienda quotata, ma lavoriamo come se lo fossimo. Ci chiediamo: stiamo spendendo quello che abbiamo programmato? Il costo delle persone è uguale? Il controllo di gestione è cruciale, anche perché quando andiamo da un possibile donatore dobbiamo rendere conto di quello che stiamo facendo e giustificare ogni situazione, passata, presente e futura. Anche dal punto di vista organizzativo non c’è differenza: se selezionare le persone è importante per fare margini, lo è ancora di più per dare un servizio in cui l’impatto umano è importante quanto quello professionale.
Vita: Nel profit, se un prodotto funziona lo si capisce se vende. Nel non profit non è lo stesso…
Porcari: Non è vero che nel non profit non si possano misurare i risultati: è più complesso, perché non occorre tenere conto solo del “quanto” ma anche del “come”. Tuttavia si possono tracciare i feedback, i riscontri dei bambini, dei genitori e delle famiglie, cioè dei nostri portatori di interesse. È sul loro grado di soddisfazione che modifichiamo il nostro modo di fornire un servizio, e facciamo pianificazione a lungo termine. Non dobbiamo sopravvivere anno per anno! Non funziona nel profit, tantomeno nel non profit. Il nostro scopo è rendere indipendente il camp, cioè metterlo in grado di contare su relazioni e credibilità tali per cui ogni anno possa raccogliere una certa quota di fondi, fare una certa quota di business attivo e avere ruolo importante nel settore della terapia ricreativa non solo a livello italiano, ma anche europeo. Se non è un approccio aziendale questo…
Vita: Ma ci saranno pure delle differenze. Quali?
Porcari: L’analisi del bisogno, che assomiglia all’analisi di mercato, si fa non solo una volta, ma in continuazione. Dobbiamo rispondere a molte domande: quali sono le malattie di cui ci dovremmo occupare? Quali le situazioni economiche per cui è più vantaggioso il nostro servizio gratuito? Quali le sacche di difficoltà? Quale l’impatto sociale, per esempio, dei viaggi della speranza? Insomma, «è giusto quello che faccio? Lo sto facendo bene? Per tutti?».
Vita: Rimpianti per la sua “vita precedente”?
Porcari: Sinceramente? No.

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