Quando sono arrivato in Italia conoscevo tre lingue ma non l’italiano. È stata così dura che oggi vorrei che i miei figli parlassero una lingua sola… di Eddy Jamous Q uando sono arrivato in Italia parlavo tre lingue, ma non l’italiano. Da una parte mi sentivo ricco, ma dall’altra la mia ricchezza non serviva, anzi?
Ogni membro della mia famiglia parla un guazzabuglio di lingue. Ogni lingua ha il suo ruolo ben definito: l’arabo viene utilizzato quando si discute di lavoro e di rapporti commerciali, il francese per chiacchierare, criticare, polemizzare e filosofeggiare, l’ebraico per pregare.
Utilizzare l’italiano all’inizio era per me una sofferenza: era la lingua dell’estero, la lingua burocratica, la lingua che testimoniava in ogni singola parola l’esilio, la depressione e la lontananza. Mio padre amava ripetere facendo vedere le forbici: «Mi hanno tagliato la lingua».
Chi è in esilio non può curare lo stile, il linguaggio e la forza della comunicazione. Si vuole pronunciare al più presto le parole, farsi capire. Molte volte ci si rende conto della propria mancanza e si parla veloce con l’illusione di non fare trapelare il proprio essere straniero.
Quante volte ho sentito questa frase: «Sei in Italia da cinque anni e non sai ancora parlare correttamente».
La lingua dell’esilio racchiude in sé amore ed odio: da una parte diventa strumento per sentirsi meglio, per interagire con gli altri. Dall’altra si sente sempre come la lingua che “ospita”. Chi è in esilio non può scrivere fiumi di parole, si riduce all’essenziale. Un’essenzialità che appare fredda, crudele, senza regole ma che invece è così intensa.
Ricordo ancora i primi tempi in cui dovevo entrare in una panetteria per comprare il pane. Passavo almeno 30 minuti indeciso se entrare o meno, mi preparavo la frase, la ripetevo a me stesso migliaia di volte, sperando che non ci fossero persone dietro di me ad aspettare o sbuffare.
L’impazienza degli altri in quei casi era per me molto dolorosa. Non esiste un rapporto diretto tra la lingua ed il pensiero. Tutto era filtrato, inquadrato, rallentato. Comunicare un’emozione in queste condizioni significava perdere l’emozione.
Con il tempo, il coraggio e molti amici intimi (mai sottovalutare l’affetto degli altri che può veramente compiere il miracolo, compreso quello di imparare una lingua) sono riuscito a far pace con la mia lingua d’esilio; ho imparato a riconoscere la bellezza dei dialetti, delle poesie. Ho apprezzato in profondità Dante e Manzoni a tal punto da arrivare a conoscere cose che nemmeno i miei compagni italiani sapevano.
Certo, chi è nato in un giardino pieno di fiori non riesce a cogliere le sfumature, gli odori e i colori come qualcuno che ci è appena entrato.
E oggi? Vado fiero delle imperfezioni, che mi permettono di migliorarmi.
Spesso sogno in arabo, litigo in francese, parlo inglese con i miei colleghi, vado a pregare in ebraico e scrivo in italiano.
Ai miei figli ho voluto dare la conoscenza di una sola lingua, l’italiano. Mi sono detto che hanno tutto il tempo per imparare volontariamente le altre.
Operazione non riuscita? i miei figli vorrebbero imparare già a 4 e 6 anni tutte le mie lingue.
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