D iciamocelo subito: l’importante è non ridurre Barack Obama a una bella favoletta. A un sogno con cui trastullarsi. Come ha detto con l’abituale punta di cinismo Massimo D’Alema, non abbiamo vinto noi, ha vinto lui. E allora è più serio cercare di capire, molto pragmaticamente, come ha fatto a vincere. Un contributo a capire viene dal servizio di copertina di Vita questa settimana. Che cosa abbiamo scoperto grazie alla nostra corrispondente dagli Stati Uniti, Alessandra Marseglia e grazie a un grande esperto di campagne elettorali americane come Gavino Sanna? Abbiamo scoperto che proprio nel momento della massima disaffezione “planetaria” rispetto alla politica, nel momento della grande massificazione della comunicazione, è accaduto che qualcuno ha provato a impostare il discorso della politica e della sua organizzazione partendo da presupposti molto diversi. La mobilitazione degli 8 milioni di volontari è stato l’aspetto senza dubbio più eclatante, sia dal punto di vista sociologico che da quello culturale. Da quanto tempo, nei nostri Paesi ricchi, la politica non riusciva a suscitare così tante energie dal basso? Non si è trattato di un fenomeno mediatico, perché di questa enorme mobilitazione ci si è resi conto più o meno a urne chiuse. La mobilitazione è infatti cresciuta come polarizzandosi attorno a una grande aspettativa di cambiamento che ha trovato in Obama e nel suo progetto un riferimento credibile nei contenuti e affidabile nelle forme. Che cosa insegna allora questa dinamica inattesa? Che il grande mostro dell’omologazione mediatica non è vincente per forza. Che il fatalismo di chi pensa che i mezzi degli altri siano sempre maggiori, nasconde in realtà un vuoto di ragioni, di passioni e di idee.
Prendiamo il caso dell’America. Sembrava che la gara fosse tra due Paesi, ben delineati nella loro identità. Da una parte l’America profonda, vagamente fondamentalista (quella, per intenderci, rappresentata da Sarah Palin). Dall’altra quella liberal, metà tollerante e metà cinica. Obama ha avuto il merito di non credere a quello schema. E ha colto un’attesa trasversale che raccontava un Paese diverso, cui nessuno dava ascolto, per una preclusione a priori. Il voto dei cattolici in questo è stato emblematico. Chi li incasellava nelle fila repubblicane, arroccati sulle cause etiche, se li è trovati invece nelle file democratiche. E sapete qual è uno dei motivi? Che Obama aveva deciso di incrementare la “faith-based initiative”, ovvero il sostegno finanziario alle organizzazioni di base religiose che svolgono attività di volontariato e welfare, una misura introdotta da Bush. Contro il parere dei suoi aveva spiegato che le attività “faith-based” «sono particolarmente adatte a offrire solidarietà e aiuto, perché il cambiamento non arriva dall’alto, ma dal basso, e poche organizzazioni sono vicine alla gente più delle nostre chiese, sinagoghe, templi e moschee». Così dando credito alla società che si costruisce giorno per giorno dal basso, senza fare proselitismo ideologico ha costruito un progetto politico capace di intercettare la voglia di cambiamento, di dare speranza. E, naturalmente, di raccogliere voti.
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