Famiglia
Ecco la cina nostra nostra vicina
Quante fantasie sul loro conto! Come quella che riguarda la cupola mafiosa. Esistono dei gruppi di criminalità organizzata ma...a cura di, Daniele Cologna
di Redazione
Siamo noi a chiamarla ?comunità?. Non loro a sentirsi tali. La lente con cui guardiamo all?immigrazione cinese è infatti distorta dall?approssimazione. I cinesi, almeno quelli inurbati nelle nostre metropoli, non costituiscono un blocco unico. Occorre tenerlo ben presente.
Religione privata
In quei contesti di cui la Chinatown milanese costituisce un esempio sintomatico, non esistono forme di solidarietà di tipo meccanico che possano generare comunità forti.
Anche la religione, che per altre nazionalità rappresenta un formidabile collante sociale, è confinata alla sfera privata. Esistono piccoli nuclei cristiani, battisti, testimoni di Geova e in minima parte anche cattolici, ma la stragrande maggioranza degli immigrati è legata alla religione popolare cinese, che sincreticamente mescola elementi di taoismo, buddismo e culti locali, dove comunque è preponderante la dimensione superstiziosa. I riti sono appannaggio della sfera familiare e difficilmente sforano nel collettivo. Qualche esempio. Le coppie non si sposano prima di aver consultato l?indovino per sapere se il giorno stabilito è fausto. La nascita di un figlio viene celebrata con cerimonie di stampo apotropaico. I giovani a mo? di talismano portafortuna portano al collo una giada attaccata a un filo di seta rossa.
Indebitati fino al collo
Un altro luogo comune da sgombrare: i cinesi sono refrattari ad ogni contatto esterno. Non è così. È vero invece che questa è la popolazione straniera che ancora oggi sconta i maggiori problemi sul piano comunicativo. La questione linguistica si somma a un modello di inserimento economico e sociale fondato quasi esclusivamente sul successo imprenditoriale. L?obiettivo di qualsiasi cinese che si sia trasferito in Italia è quello di mettere a frutto l?investimento, spesso cospicuo, che ha fatto su di sé e sulla propria famiglia.
Il costo del passaggio clandestino si aggira fra i 10 e i 15mila euro. Un debito che bisogna contrarre con parenti e amici che già vivono in Italia. In Cina sono cifre fuori budget. è solo un gradino. Mettersi in proprio, è questa la prima ambizione, comporta una serie di esborsi che spesso non sono richiesti ai neo imprenditori italiani o di comunità di immigrati in grado di comprendere l?italiano. Non conoscendo la lingua i cinesi, dalle procedure di regolarizzazioni fino all?avvio dell?attività, hanno bisogno di un accompagnamento di traduzione costante. E costoso. Praticamente tutti gli adulti che ho incontrato in questi 12 anni di osservazione erano indebitati di una cifra che poteva variare da 10 a 25mila euro.
Coltivare le reti amicali e familiari rimane quindi l?unica strada accessibile per avere successo. Non stupisca quindi il basso tasso di matrimoni misti. Questo non significa però che vi sia un?indisponibilità alla relazione con gli italiani. Semplicemente mancano le opportunità strutturali. Se per poter aprire la mia impresa devo dedicare tutto il poco tempo che mi avanza dal lavoro per coltivare relazioni che mi permettono di raccogliere informazioni su come reperire i capitali iniziali, difficilmente mi permetterò il lusso di approfondire i rapporti con gli italiani. E di certo non imparerò la lingua.
La cupola non esiste
La muraglia cinese non è però invalicabile. Tre considerazioni. Investire in realtà commerciali richiede tempi lunghi di realizzo per ammortizzare i costi, ripianare i debiti e ottenere profitti di un certo rilievo. Il progetto migratorio è necessariamente di medio e lungo periodo. Il ritorno in patria è quindi un?opzione che viene più vagheggiata che non attuata. E anche chi la mette in atto, lo fa dopo molti anni in Italia, lasciando comunque nel nostro Paese parte della famiglia. Secondo punto. Il grado di successo della attività è sicuramente buono. Ciò comporta che non vi siano impedimenti rispetto alla scolarizzazione dei figli e al reperimento di soluzioni abitative più che dignitose. Terza osservazione. Nelle aree urbane il manifatturiero ha lasciato il passo al commercio al dettaglio e all?ingrosso a conduzione familiare molto più aperto al contatto con gli acquirenti, spesso italiani, di quanto lo siano i cinesi dei distretti industriali a immigrazione diffusa di Prato o del triangolo Reggio Emilia, Carpi, Modena.
Aggiungiamo poi che anche la questione mafia è pretestuosa. Non esiste una cupola mafiosa cinese in Italia. Bisogna affermarlo categoricamente. Ci sono, certo, forme di criminalità organizzata, ma molto marginali e legate essenzialmente al passaggio clandestino e al reperimento dei documenti e alle estorsioni legate al fenomeno delle baby gang. Per il resto si possono riscontrare incongruenze con le norme di igiene sul lavoro, pari a quelle di tante imprese italiane.
Costruire ponti nelle nostre Chinatown non è un?opera ciclopica. Occorre farlo però sul terreno più strategico, che è quello del mondo del lavoro. I cinesi quando hanno bisogno di un mutuo per la casa o l?azienda passano attraverso finanziarie cinesi. Se però esistessero istituti di credito in grado di predisporre prospetti informativi scritti anche in cinese o punti aperti al pubblico in grado di dialogare in cinese, sicuramente sarebbero presi in considerazione da molti imprenditori con gli occhi a mandorla. Con reciproco vantaggio. Lo stesso vale per le consulenze della organizzazioni di categoria e le istituzioni delle città. I cinesi non aspettano altro che qualcuno spieghi loro come muoversi in un contesto che conoscono troppo poco.
testo raccolto da Stefano Arduini
Daniele Cologna, 40 anni, nato a Bolzano, docente universitario, sociologo e sinologo, è uno dei massimi italiani esperti di Cina. Laureato in Scienze politiche a Milano, ha studiato la lingua cinese presso l?università del Zhejiang. Fin dal 1994 coniuga l?attività di ricercatore sociale con quella di mediatore linguistico. è autore, fra l?altro, di Cina a Milano (ed. Abitare Segesta)
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