Non profit
Efficacia degli aiuti.L’Italia all’anno zero I Paesi donatori nel 2005 hanno messo a punto unadichiarazione per verificare l’impatto reale degli interventi. Ecco che cosa emerge di Jacopo Vaciani
cooperazione Ad Accra la Conferenza internazionale
di Redazione
Ad Accra, in Ghana, con la terza Conferenza internazionale sull’efficacia degli aiuti alla sviluppo dal 2 al 4 settembre ci si prepara ad affrontare il nodo della qualità. Dal 2000 in poi l’architettura dell’aiuto è diventata sempre più complessa e rischia il collasso gestionale. Per questo, nel 2005 la comunità internazionale ha adottato la Dichiarazione di Parigi sull’efficacia dell’aiuto con obiettivi da raggiungere nel 2010: è il documento di riferimento per Accra. In vista della sua attuazione, molti donatori Ocse hanno presentato piani d’azione per riformare tempestivamente la gestione degli aiuti. Il nostro Paese non è tra questi e solo recentemente, al ministero Affari esteri, sono state avviate riflessioni sul tema dell’efficacia, che non hanno prodotto ancora nessun documento strategico pubblico.
Il ritardo italiano non è attribuibile alla difficile congiuntura economica o alle ristrettezze del bilancio nazionale: il rispetto degli impegni di Parigi richiede soprattutto un cambiamento del modo di fare aiuto. Anzi, si dà la possibilità di far fruttare al massimo le risorse già stanziate: un’opportunità per la nostra cooperazione continuamente alla prese con dotazioni finanziarie sempre ben al di sotto della media europea: nel 2007, lo 0,19% del Pil contro la media europea dello 0,40%.
Il mancato allineamento dell’intervento italiano alle priorità di sviluppo degli altri Paesi dipende soprattutto dalla gestione centralizzata e dalle scelte dei canali dell’aiuto. La nostra cooperazione predilige l’aiuto “a progetto” rispetto all’aiuto “a programma” (8% del bilaterale italiano al netto della cancellazione del debito).
Nell’aiuto a progetto i donatori finanziano un’iniziativa ben definita e ne stabiliscono tutte le modalità di gestione. Si possono dunque ignorare del tutto le priorità di sviluppo dello Stato partner, creando strutture parallele di gestione. Invece, l’aiuto a programma è una forma di sostegno finanziario alle strategie di sviluppo approvate dai governi dei Paesi partner. Gran parte dell’incremento dell’aiuto atteso italiano passerà ancora attraverso i progetti, anche se, sotto la spinta europea, si tenta di mettere in atto un maggior decentramento della gestione.
L’aiuto legato – ossia condizionato all’acquisto di beni e servizi italiani – al netto del debito fa dell’Italia il peggior donatore dell’Unione Europea. Si tratta di una forma d’aiuto inefficace poiché fa lievitare i costi del 30-50% rispetto a forniture assegnate con un bando. Secondo lo Human Development Report 2005, per ogni euro che il nostro Paese destina all’Etiopia, 14 centesimi vengono spesi per l’acquisto di beni italiani. Un altro esempio è la donazione finanziaria dell’Italia nel gennaio 2006 al Programma alimentare mondiale destinato ad Uganda e Burkina Faso, con la precisa indicazione di acquistare riso italiano, che a quel tempo costava 527,8 dollari a tonnellata, mentre il riso thailandese o pakistano ne costava 200.
L’incontro di Accra poteva rappresentare per l’Italia un’opportunità per avviare immediatamente un’analisi interna. I ritardi dell’amministrazione e l’incerta congiuntura politica hanno ritardato la riflessione e vanificato ogni possibilità di un maggiore protagonismo internazionale, mentre il nostro Paese si appresta ad assumere la presidenza del G8. Per l’Italia resta l’obbligo di rispettare gli obiettivi della Dichiarazione di Parigi: la costringeranno a “riformare gestionalmente” la sua cooperazione allo sviluppo, verso il decentramento, lo slegamento e il coordinamento. Si realizzerà surrettiziamente in tre anni una mini-riforma della cooperazione, dopo che per dieci anni a Roma non si è riusciti a portare a termine nessuna riforma della legge 49.
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