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Esiste la guerra giusta? Chiedete a mio nonno Rinaldo

di Redazione

Vecchietti quasi centenari piazzati davanti al block notes. Per raccontare ai ragazzi di oggi perché
«chi va in guerra, anche se torna, muore un po’».
Dopo l’avventura nei manicomi, Simone Cristicchi mette in prosa poetica un altro tema caldoQuasi tutti ne abbiamo sentito parlare per la prima volta nel 2005, quando in un pezzo allegro e irridente invocava: «Vorrei cantare come Biagio Antonacci» (ma anche «vorrei vestirmi come Biagio Antonacci», per rincarare lo sfottò). Poi però, quando tutti pensavano a Cristicchi come a quello che fa le canzoni da ridere, ha fatto una canzone che mescolava poesia e dramma esistenziale, e ci ha vinto Sanremo 2007. Poi ha pubblicato racconti ? seri, belli ? sulla sua esperienza di volontario in un centro di igiene mentale di Roma. Poi è tornato a Sanremo, ma stavolta scegliendo di nuovo il registro ironico con una canzone sui mass media («Meno male che c’è Carla Bruni», diceva il ritornello). Tanto per rendere più complicata l’impresa di inquadrarlo in uno schema.
Poi in questi anni ha fatto anche un tour sui canti di miniera accompagnato da un coro di minatori. Ha fatto teatro con un monologo sulla campagna di Russia. Ha realizzato un premiato documentario sulle ex strutture manicomiali, e cinque cortometraggi sullo stesso argomento. Ha condotto un programma su RadioRai. E oggi pubblica un libro (il quinto in cinque anni) in cui ha raccolto storie sulla Seconda guerra mondiale dalla viva voce di chi le ha vissute in prima persona. Insomma, Simone Cristicchi è una delle cause della disoccupazione in Italia: fa i lavori di venti persone diverse… «Io racconto storie», sintetizza lui. «Storie di tutti i tipi, e in tutti i modi».
Partiamo dalle ultime, le storie di Mio nonno è morto in guerra.
Tutto nasce dal primo racconto, Il freddo di nonno Rinaldo. Mio nonno. Ho capito che c’era una memoria da acchiappare, fermare. Io credo che nel momento in cui una storia è messa per iscritto, in un libro o canzone o spettacolo, quella storia è salva. Ho capito che così come mio nonno non raccontava volentieri della guerra, c’erano altri che nascondevano un tesoro. Non è stato facile trovarlo. I reduci ancora vivi che lo possono condividere sono pochi. Quattro persone che mi hanno raccontato la loro storia sono morte nel periodo tra il nostro incontro e l’uscita del libro.
La lavorazione del libro pare essere stata piuttosto complicata.
Sono andato a incontrare molte persone che hanno superato i 90 anni, ed altre che erano bambini durante la guerra, e oggi vanno perlomeno verso gli 80 anni. Molte le ho trovate grazie alla Banca della Memoria, archivio online di storie, che mi ha aiutato a fare una specie di mappa: ho sfruttato la tournée teatrale per andarli a incontrare. Ero il terrore dei centri anziani: appena arrivato in una città, andavo a rompergli le scatole. Volevo un mosaico che raccontasse la Seconda guerra mondiale delle persone normali, le persone che l’hanno subìta.
C’è chi ha detto: «Non ne voglio più parlare»?
Sì, diversi. Una persona mi ha detto di non aver dormito per una settimana dopo aver rievocato la sua vicenda. Ma non sempre sono storie drammatiche, alcune sono divertenti, o sentimentali. C’è molta quotidianità. E ho voluto deliberatamente farne delle storie brevi, di una pagina e mezza, anche per avvicinare i giovani levando una certa patina di incomunicabilità tra quella generazione e le ultime, che sono più veloci. Il mio lavoro è stato quello del pescatore: ore a fissare il galleggiante per poi, nel vederlo finalmente muoversi, capire che era affiorato il momento da catturare. Ho anche cercato di coprire tutte le tessere del mosaico, non lasciare scoperti i punti di vista di chi era in trincea in Grecia, in Russia, o di chi era in città. Chi è stato antifascista da subito, chi invece ha creduto negli ideali su cui faceva leva Mussolini, chi ha subito la repressione jugoslava e tornato in Italia era guardato con odio da italiani con le bandiere rosse…
Hai mai la sensazione di esser visto dal mondo della musica come quello troppo impegnato, e da quello “alto”, dei libri e del teatro, come il cantante che ha vinto Sanremo?
Il mio percorso è molto istintuale, non c’è nulla di programmato, approfondisco passioni che magari sbocciano a causa di incontri, come quello col Coro dei minatori di Santa Fiore, che ho sentito cantare in un’osteria in cima alla montagna: me lo sono portato in tour in tutta Italia, in 80 spettacoli. Ma qualche problema c’è. Nessun critico è mai venuto, credo per puro pregiudizio, a vedere Li romani in Russia, spettacolo teatrale che sto tuttora portando in giro. E ho perso molto del mio pubblico più giovane, quello che sentiva le mie prime canzoni alla radio. Anche perché se vai a Sanremo con la canzone che solleva un problema, rischi l’etichetta. O di rompiscatole, o di furbo, come è capitato a Povia. È interessante comunque che dopo la mia vittoria abbiano vinto anche Vecchioni ed Emma con due canzoni che riflettono sul momento sociale.
A proposito di Ti regalerò una rosa e del tuo interesse per il mondo della malattia mentale, cos’hai aggiunto a quel punto di vista, a cinque anni di distanza?
Quella è un’altra passione: c’è chi ha la passione per il calcio e chi ce l’ha per i matti… Continuo a ricevere materiale, libri, proposte di partecipare a convegni psichiatrici, ai quali francamente mi sentirei fuori posto. Ho scoperto un mondo sconfinato. Per quel progetto ho incontrato tanti tipi di realtà, visitato ex manicomi e strutture nuove, residenze, assistenze. Le cliniche private mi hanno chiuso sempre la porta. A Roma si sente parlare di un luogo in cui le persone sono chiuse come animali, visibili solo dai parenti. Che non parlano, perché poi, se mancano le alternative, le famiglie arrivano ad accettare queste situazioni piuttosto che ritrovarsi con situazioni ingestibili in casa.
L’approccio migliore, dove l’hai trovato?
A Genova, oppure vicino casa mia, a Genzano di Roma, dove le persone hanno recuperato una loro dignità. E comunque posso affermare che non c’è un’insensibilità generalizzata: ci sono posti vergognosi, che vanno chiusi subito, ma posso dire che nell’80% dei casi in Italia c’è rispetto per le persone malate.

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