Non profit
Far West Mogadiscio
Un giorno di ordinaria follia nei vicoli segreti della capitale della Somalia
di Redazione
Fra colpi di mortaio e compravendite di spaghetti turchi e lanciarazzi spallabili, tre giornalisti italiani sono entrati nella città più pericolosa del pianeta. A novembre, nel numero 46 a pagina 15 Vita ha pubblicato il loro reportage dalla capitale della Somalia.
Mogadiscio, novembre 2009
Gli occhi di Mohamad sono accesi di rabbia. Dalla sua giacca con i simboli della mezzaluna rossa prende un paio di occhiali, tenuti insieme con del nastro adesivo, e guarda attentamente i nostri volti. Sono vent’anni, dice, che non vedo un italiano. Poi torna a dividere con un paio di forbici arrugginite le garze in due parti, prima di avvolgerle intorno al corpo di un uomo adagiato su una branda. Manca tutto, all’ospedale Martini di Mogadiscio, e i cadaveri, oggi, sono troppi. Tiri di aggiustamento, in gergo: si spara un proiettile, e si sta a guardare dove cade. Poi, se necessario, si corregge il tiro. Si muore anche così, in questa città insanguinata da vent’anni di indicibili violenze, che nessuno sembra in grado di fermare. Basta essere nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Il governo di transizione somalo, guidato dal presidente Sheik Sharif, ex leader delle Corti islamiche, esponente del clan Abgal, controlla ben poche strade della capitale. Appoggiato dagli Usa, sostenuto economicamente dalla comunità internazionale, difeso da un manipolo di ugandesi e burundesi dell’Unione Africana, il giovane presidente affronta un’offensiva senza precedenti, scatenata a maggio dalle milizie fondamentaliste Al Shabaab e Hizbl Islam, decise a conquistare la capitale. Nate dalla disgregazione delle Corti islamiche, ogni giorno combattono in campo aperto con i metodi tipici delle forze terroristiche qaediste. Tra le loro fila combattono yemeniti, pakistani, afghani, ma anche inglesi e americani. «L’ideologia di Al Shabaab si diffonde nel Paese come un’epidemia», confida il ministro della Sicurezza, Abdullahi Mohamed Ali, «irrompono nelle scuole per tenere dei comizi, arruolano forzatamente gli studenti, approfittano della situazione drammatica. Avere un fucile in mano, in Somalia, significa avere del cibo, sopravvivere». Il clima di generale insicurezza, l’assenza di istituzioni credibili, l’indifferenza con cui la comunità internazionale ha trattato la crisi somala negli ultimi dieci anni hanno favorito la proliferazione di milizie autonome, veri e propri freelance del crimine dediti al traffico d’armi, ai rifiuti tossici, ai sequestri, ma anche di organizzazioni armate che operano con scopi diversi.
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