I miti della filantropia
Filantropia, si tratta di finanziare o piuttosto di restituire?
Continua la serie che vuol riflettere e mettere in discussione i modelli filantropici. Oggi è la volta della vicepresidente di una fondazione storica americana, la Robert Sterling Clark, che si sofferma sulla necessità di non celare come, talvolta, i grandi patrimoni da cui oggi arrivino i finanziamenti siano stati costituiti in contesti storici particolari e con metodi discutibili

“I miti delle filantropia” è la serie curata dalla comunità di pratica filantropica Elemental, animata da Chiara K. Cattaneo e Mandy Van Deven. Interventi che rappresentano uno spaccato della filantropia internazionale e analizzano alcuni dei “miti“ più comuni che determinano il modo in cui operano le realtà donative. Interventi che, chiedondosi “e se?”, offrono approcci, interventi e nuove visioni di come si potrebbe agire per un mondo più giusto. La serie viene pubblicata anche dal Centre for Effective Philanthropy e dall’Association of Charitable Foundations, oltre che da VITA.
Quando le persone scoprono che lavoro in una fondazione erogatrice, spesso dicono: «Dev’essere così divertente distribuire soldi». E hanno ragione – più o meno. Dopo aver ricevuto un finanziamento dalla mia fondazione, spesso i nostri partner ci ringraziano. Ci mandano messaggi personali e riconoscono pubblicamente il contributo della fondazione sul loro sito internet o durante discorsi ed eventi. Sul momento questo mi fa star bene, ma mi mette anche a disagio. In fondo non sto elargendo soldi miei. E anche se sono contenta di avere un ruolo nel movimentare soldi dalla fondazione al campo, più a lungo faccio questo lavoro e più mi faccio domande sull’etica del modo in cui lo facciamo.
A volte mi immagino una storia, e rifletto su come mi farebbe sentire. Lo scenario è questo: e se cento anni fa avessero rubato il portafogli a mio nonno mentre stava tornando a casa, dopo essere stato pagato per una settimana di duro lavoro? E se poi il ladro avesse depositato quei soldi in banca, maturando un interesse composto nel corso dei cento anni successivi? E se quest’anno mi telefonasse la nipote di quel ladro, dicendomi che potrei fare domanda per avere parte di quei soldi dopo averle scritto una proposta ed essere andata nel suo ufficio per un colloquio su cosa avrei avuto in programma di fare con una trascurabile parte dei soldi di mio nonno? Le sarei stata grata, se avesse deciso di restituirmi quei soldi? Le avrei scritto un biglietto di ringraziamento o avrei messo il suo nome sull’edificio che avrei comprato con quei soldi?

Se Rockefeller finanzia la lotta
al cambiamento climatico
Questo non è un parallelo esatto con la filantropia moderna, ma si avvicina abbastanza a quello che succede quando la Rockefeller Foundation finanzia progetti sul cambiamento climatico con risorse economiche ottenute grazie al petrolio, o quando la Doris Duke Foundation utilizza i guadagni del tabacco raccolto dagli schiavi per finanziare borse di studio presso college e università storicamente frequentate da afroamericani. La ricchezza della filantropia non è tanto il frutto dei crimini di singoli individui, quanto delle strutture che hanno reso possibile quel furto in prima istanza.
Buona parte di quel furto iniziale è avvenuto in modi che non lo facevano sembrare un furto, secondo la maggior parte della gente del tempo: mutui maggiorati, un sistema bancario e di prestiti orientato allo sfruttamento, standard e condizioni di lavoro inique, e degrado ambientale.
Molti tra noi che lavorano in fondazioni, distribuiscono profitti provenienti da attività economiche estrattive, in quantità arbitrarie per periodi di tempo arbitrari, per affrontare danni che sono stati creati ed esacerbati da sistemi ingiusti che hanno permesso che quelle fortune venissero create. Questo è altrettanto vero sia per coloro che oggi fanno confluire nella filantropia la ricchezza accumulata attraverso modalità estrattive, sia per chi ha creato il settore della filantropia durante l’era industriale.
Molti tra noi che hanno il compito di distribuire gli interessi (o meno!) generati da queste fortune accumulate, stanno cercando di creare delle procedure meno onerose per ridistribuire questo denaro. Ci stiamo sbarazzando delle lettere di intenti e stiamo semplificando il processo di domanda. Siamo noi ad andare negli uffici delle organizzazioni applicanti, e non viceversa. Ma mentre cerchiamo di bilanciare gli squilibri di potere inerenti a queste relazioni, rimaniamo completamente in silenzio sulla provenienza del denaro, e sulla possibile relazione che i nostri partner beneficiari possono avere con esso. Il National Center for Responsive Philanthropy offre un’acuta analisi di questa dinamica nel suo rapporto .”
È possibile “aggiustare” la filantropia?
Non credo ci sia alcun modo di ‘aggiustare’ la filantropia, perché la sua esistenza è fondata su una distribuzione iniqua delle risorse, e perché è stata concepita per mettere un numero esiguo di individui nella posizione di prendere decisioni unilaterali su ciò che è di pubblico interesse.
Oltre all’originaria estrazione della ricchezza accumulata, c’è un secondo livello di appropriazione che le fondazioni hanno messo in atto mantenendo il denaro che controllano al di fuori del flusso delle imposte. Mettendo il denaro in una fondazione o in un fondo donatori anziché pagando le tasse dovute, i ricchi sottraggono risorse al bene comune, il luogo dove vengono prese decisioni democratiche su come allocare il denaro proveniente dalle tasse, e accumulano invece potere nelle aree che decidono indipendentemente di finanziare.

Prendete Bill Gates, che ha fatto soldi sviluppando software per computer e vendendoli a un prezzo molto più alto di quanto costasse produrli. La sua fondazione stabilisce politiche su salute e istruzione. I fratelli Koch, attraverso le loro istituzioni filantropiche, stanno sviluppando l’agenda legislativa del partito repubblicano. Non sono chiamati a rispondere per il denaro che hanno mantenuto all’esterno del sistema di tassazione, né esiste alcuna regolamentazione per ciò che finanziano, al di fuori degli standard regolatori dell’Internal Revenue Service per le donazioni filantropiche.
Anziché controllori strategici, amministratori creativi
Mi chiedo se esiste una storia diversa che potremmo raccontare, che potrebbe portare a un sistema diverso di redistribuzione di questi fondi. E se fossimo intenzionali e trasparenti nel parlare di come sono stati accumulati i soldi della filantropia? E se la filantropia operasse in un modo che assomiglia più a una restituzione che non a una elargizione?
Anziché concepirci come controllori strategici, potremmo considerarci amministratrici creative che cercano di restituire ai legittimi proprietari il denaro sottratto. Il farlo potrebbe scuotere l’idea che abbiamo di noi come persone generose o benefattrici, ma la ricompensa sarebbe piū grande di quello che viviamo oggi. Idealmente stiamo svolgendo il nostro compito di amministrare per il dovere di restituire e riparare, più che per benevolenza o generosità.
Nel riconcettualizzare la filantropia come restituzione e non donazione, potrebbe mettersi in moto una valanga di cambiamenti: la responsabilità fiscale del consiglio direttivo comprenderebbe il tracciare le origini della dotazione, e lo staff della fondazione avrebbe la responsabilità di identificare i destinatari dei finanziamenti e calcolare quanto sarebbe loro dovuto. Potremmo ribaltare l’idea spesso inarticolata ma pervasiva che Il Vangelo della Ricchezza di Andrew Carnegie ha inculcato nella filantropia fin dall’inizio: che i ricchi hanno le soluzioni ai problemi che ci affliggono tutti. Nel momento in cui mettiamo in discussione di chi sia la proprietà dei soldi, dovremmo anche ripensare a chi lavora nelle nostre fondazioni, e a chi siede nei consigli direttivi. Non credo che la nipote di chi ha rubato il portafogli a mio nonno dovrebbe essere la persona che decide dove deve andare la ricchezza che è stata accumulata grazie a quel furto. La restituzione dei soldi dovrebbe invece essere governata dai discendenti delle persone a cui sono stati sottratti. Con questa modalità di restituzione dei fondi, potremmo sfruttare il tempo condividendo le lezioni apprese e supportando le persone e le organizzazioni che sanno di cosa la nostra società ha realmente bisogno. Lo preferirei di gran lunga a una lettera di ringraziamento.
Lisa Pilar Cowan è vice-presidente della Robert Sterling Clark Foundation, un ente filantropico che risale agli anni ’50 del secolo scorso e discende da una delle famiglie industriali la cui fortuna è legata a un prodotto molto popolare: la macchina da cucire Singer. Cowan qui interviene però a titolo personale.
Nella foto di apertura, di AP Photo/Elaine Thompson/LaPresse, Bill e Melinda Gates.
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