Non profit

Fotovoltaico e biomasse. Il grande salto che serve al Sud del mondo porta alle rinnovabili. Parola di Legambiente

di Redazione

Come per la telefonia nel Sud del mondo si è passati dal nulla al cellulare, così per l’accesso si deve passare dal niente alle rinnovabili». Non ha dubbi Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente: «È una sorta di principio culturale ed epistemologico che ci dice che la tecnologia può anche procedere per salti».
Con che conseguenze?
Si può saltare dall’energia prodotta in modo tradizionale a quella realizzata da rinnovabili o almeno prodotta da un sistema misto, costringendo a una forte territorializzazione, che è la caratteristica delle rinnovabili. Fotovoltaico, solare termico e biomasse danno il meglio di sé su impianti piccoli e medi. E quindi sono più efficienti se distribuite sul territorio anche perché si riduce la dispersione originata dal trasferimento. In questo modo un villaggio africano o un piccolo paese del Sud-Est asiatico possono diventare luoghi di sviluppo.
Quali sono le condizioni perché l’accesso universale divenga realtà?
La precondizione positiva è che le tecnologie ormai sono a disposizione. Mentre nei Paesi sviluppati il problema è la grande quantità di energia necessaria per abbandonare le fonti energetiche tradizionali, in gran parte del mondo si potrebbe assicurare un accesso minimo all’energia con impianti medi. La seconda condizione è rappresentata dalle risorse. Paradossalmente anche in questa fase di crisi i soldi non sarebbero un problema. Nel 2010, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, sono stati spesi 409 miliardi di sostegno alle fonti fossili. Da questi contributi si possono recuperare i 40 miliardi necessari l’anno.
È d’accordo con chi pensa che il mondo del business e i big player avranno un grande ruolo nel portare l’accesso?
Se guardo quel che è successo in Italia con le rinnovabili, devo dire che sono stati rilevanti piuttosto i nuovi soggetti economici. I grandi player, anche per difendere investimenti fatti nel passato, si sono dimostrati meno attenti a questo spazio di mercato. È chiaro che se si deve intervenire a tappeto ad esempio nell’Africa subsahariana immagino molti interessi in campo e quindi anche big player. Ma probabilmente alla fine occorrerebbe far nascere delle imprese in loco, per gestire gli impianti per esempio e per fare la manutenzione.
Quale potrebbe essere il contributo della cooperazione e delle ong?
Oltre a promuovere iniziative di micro-credito, le cooperative potrebbero ? assieme alle piccole imprese ? essere i soggetti che mettono in campo e gestiscono piccoli impianti. La tecnologia può essere prodotta anche dalle multinazionali, ma poi serve qualcuno che assicuri la distribuzione, la manutenzione, e soprattutto che arrivi in tutti gli angoli, anche i più remoti, di un Paese. Qui una funzione importante la possono avere le filiali o le aziende locali, fatto salvo il ruolo di indirizzo e di regolamentazione che il pubblico deve svolgere.
Nessuno può muoversi da solo…
Parliamo sempre di filiere. Fra pubblico e privato. E tra soggetti privati. Deve essere messa in campo anche una filiera industriale. Anche con il protagonismo del privato sociale, delle cooperative e delle ong: il terzo settore può avere un ruolo importante, ad esempio per far nascere su quei territori imprese sociali. Il singolo villaggio che si auto-organizza per gestire un impianto di produzione di energia o calore da fonti rinnovabili ha bisogno che gli venga offerto un indirizzo da parte dell’amministrazione ma anche che ci sia un sistema di sostegno dal punto di vista tecnico e della commercializzazione.
Secondo alcuni osservatori le ong si sono occupate poco di accesso. È d’accordo?
Storicamente nel mondo delle cooperative e delle ong c’è stata una maggior quota di attenzione a temi quali la sicurezza alimentare, l’accesso all’acqua e alla produzione agricola che ha portato alla desertificazione e quindi ai cambiamenti climatici. Fino a cinque anni fa, non c’era grande attenzione alle energie rinnovabili. In Italia ma anche in altri grandi Paesi, in Europa e negli Stati Uniti. L’eccezione era la Germania che su questo tema è partita dieci anni fa. Ora la gente comune è molto più attenta alle rinnovabili, è diventata una cultura diffusa: in Italia ci sono 400mila impianti di fotovoltaico. È chiaro che di questa nuova sensibilità abbiano risentito anche i cooperanti. Oggi un progetto di cooperazione nel Sud del mondo è impostato già con energia rinnovabile.
Più accesso significa più impatto sull’ambiente?
Il rischio c’è, ma dipende dal mix di fonti che si utilizzano. Ovvio che se produci energia solo con il carbone, le emissioni di CO2 aumentano… È chiaro che in futuro la competizione fra Paesi sviluppati sarà nel riuscire a produrre più energia con meno emissioni e più efficienza. Comunque il rischio è oggettivo. Penso si andrà verso un’economia in cui si disaccoppierà il consumo dell’energia con l’aumento del benessere, oggi molto connessi. In realtà è un trend già verificabile per esempio in Germania.
Quali risultati attende da Rio+20?
Rio non ha l’obiettivo di sottoscrivere accordi vincolanti, ma quello di arrivare a una road map, di scrivere l’agenda. Come è avvenuto nel 1992 quando i lavori prepararono quello che poi sarebbe stato il Protocollo di Kyoto. Così dovrebbe essere tracciato un percorso per l’accesso universale e la green economy, cioè economia a bassa emissione di CO2. Il problema vero, dentro questa road map, è come si sostiene lo sviluppo delle eguaglianze. Cioè come si crea nuova economia e si riducono le disuguaglianze.

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