Non profit
Giornali alla prova della libertà
Una famosa firma tunisina racconta gli incubi dell'era Ben Alì e le sfide di oggi
di Redazione

di Fadhila Bergaoui*
TUNISI – “Mio Dio! Non potrò mai disfarmi delle mie catene ! » Questo fu la mia vera sorpresa dopo l’annuncio della partenza di Ben Ali dal potere. Era il 14 gennaio 2011. La maggior parte dei giornalisti si sono sicuramente confrontati alla stessa domanda lancinante: come sbarazzarsi di questo sentimento ossessionante, malsano che ci si fa sentire sminuiti di fronte a una censura implacabile?
L’incubo della censura
Per i giornalisti della mia generazione, quella dell’indipendenza del 1956, la situazione peggiorava giorno dopo giorno ed era tanto più dura da accettare che è andata avanti per decenni.
Per oltre mezzo secolo abbiamo vissuto sotto il regime del partito unico, del pensiero unico. Un solo partito politico, una sola organizzazione di donne, un solo sindacato operaio, uno patronale, uno per gli agricoltori, ecc. Tutte queste organizzazioni erano in un modo o in un altro infeodate al potere.
Ad eccezione di un breve periodo di libertà alla fine degli anni ’70, i media dovevano ubbidire agli ordini impartiti dal partito unico e dalla fine dell’era di Bourguiba, primo presidente della Repubblica tunisina, a quelli del palazzo. Dalla stampa pubblica a quella indipendente, passando per i servizi radiotelevisivi i media svolgevano il loro lavoro seguendo una sola logica elaborata da una sola fonte.
La mano che scrive, la testa che ride
Questa situazione era tanto più insopportabile e tragica che la scolarizzazione sostenuta ad oltranza dagli anni ’60 aveva spinto sul mercato del lavoro dei tunisini stradiplomati. Molto istruita e coltivata, cosciente del potere a cui si doveva sottoporre, questa generazione sognava di scendere per le strade e contestare la repressione.
Per i giornalisti la vicenda era più drammatica. “La mano che scrive, la testa che ride” era del resto l’espressione preferita di un collega scomparso qualche anni fa e che ben traduce la situazione schizofrenica in cui ci siamo ritrovati.
Oltre alla lotta quotidiana che ci impegnava con i nostri responsabili per negoziare una parola o strappare un misero spazio di libertà, i giornalisti erano diventati maestri nell’arte di non sfigurare completamente nei confronti dei lettori.
Il caso La Presse de Tunisie
Il caso dei giornalisti di La Presse de Tunisie, organo di stampa governativo, è un caso esemplare. Salvo rare eccezioni, l’astuzia era sempre la stessa: accontentarsi di riportare i fatti e, nel migliore dei casi, emanare una o due critiche “costruttive” con il risultato di non dire assolutamente niente.
Inesorabilmente abbiamo finito per acquisire strani riflessi: niente terreno, niente giornalismo investigativo, ma cifre che il potere ci propinava e dei rapporti di cui nessuno verificava la veridicità.
La realtà ci sfuggiva e il doppio discorso distillato dal potere finiva per avere la meglio su di noi senza che ce ne accorgessimo. Le nostre mani scrivevano e la nostra ragione negava.
Le persone da intervistare erano scelte con logica spietata e le loro dichiarazioni controllate. A furia di vedere i nostri articoli tagliati, macellati e maltrattati, molti di noi erano convinti che fosse meglio “emigrare” verso tematiche meno “delicate”.
In fuga dalla politica
Alcuni giornalisti hanno addirittura scoperto di possedere un vero talento nell’urbanismo, l’arte culinaria e l’archeologia. Per derisione, ci prendevamo in giro soprannominando un collega “il o la specialista della pietra” per aver fatto della Medina o di un altro luogo antico una passione per necessità.
Eravamo diventati dei nostalgici del passato, vitale per continuare a credere che eravamo ancora dei giornalisti agli occhi dell’opinione pubblica. Penne talentuose si sono così rifugiate in tematiche molto interessanti, ma che non rispondevano ai bisogni più urgenti del cittadino tunisino lambda.
Essendo perfettamente francofoni, i giornalisti del quotidiano “La Presse” riuscivano a salvarsi grazie allo stile della loro scrittura. Uno stile che a mio avviso conferiva ai loro articoli una parvenza di rigore e di savoir faire.
Essere giornalisti ai tempi di Ben Alì non era certo un orgoglio. L’ex presidente della Repubblica, che non credeva per niente alla libertà di espressione, non ha esitato ad accusarci di autocensura per poi chiederci di liberarci da questo male. Allo stesso tempo, i veri censori rafforzavano la loro vigilanza per mantenere tutti i giornalisti nella mediocrità. Il peggio è che una parte dell’opinione pubblica ha finito per credere che tutto sommato i giornalisti erano incapaci di progredire e di fare il loro lavoro in maniera corretta.
Il 14 gennaio, un giorno di liberazione?
Poi è arrivato il 14 gennaio. Un giorno di liberazione? Sì, perché oggi siamo liberi di scrivere e affrontare soggetti a cui nessuno avrebbe mai osato pensare alcuni mesi fa.
Questa libertà, inimmaginabile per noi che abbiamo vissuto nell’oscurità più assoluta, è apparsa di colpo e ci ha accecati. Nell’euforia della libertà immediata e istantanea, è stato necessario riconquistare al più presto i riflessi giusti per fare correttamente il nostro mestiere.
Ancora oggi penso che molti giornalisti non sono ancora riusciti a trovare il giusto equilibrio. Portato dallo slancio e dal vento della libertà, il settore inizia a mettere a nudo i suoi limiti enormi: chiunque può improvvisarsi giornalista e per timore di non essere in voga finisce per produrre una massa di informazione e di opinioni a volte incontrollabili e contraddittorie che sommergono il consumatore.
Confondendo libertà di espressione e anarchia, i giornalisti tunisini fanno un lavoro poco rigoroso. Molti di loro sostengono tale corrente o partito politico, e non esitano a portare avanti le loro proprie opinioni a scapito dell’etica professionale e dell’obiettività alla quale si dovrebbero attenere.
E non sarà un cittadino incontrollabile, egli stesso pronto ad assaporare per la prima volta una libertà assoluta che potrebbe aiutare i giornalisti a svolgere il loro lavoro in modo più efficace. Al contrario, oggi i giornalisti sono continuamente assillati da un’opinione che a colpi di minacce chiedono loro di pubblicare tutto che quello li dice, senza nessuna verifica dell’informazione a loro rilasciata. Nel periodo in cui il paese ha bisogni di media affidabili e agguerriti, il nostro settore è ancora alla ricerca dei propri punti di riferimento.
* Fadhila Bergaoui è giornalista tunisina ed ex capo redattrice di La Presse de Tunisie
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