Itapuã è un villaggio che conta appena 400 abitanti, tutti indios Tupinambà. Statura media, carnagione scura, il capo cinto di piume gli uomini, i lunghi capelli corvini delle donne raccolti con fermagli fatti di semi colorati. È la loro terra quella in cui abitano. È il loro Brasile, quello che precedette l’arrivo dei colonizzatori portoghesi. Ma oggi di questo passato mitico resta ben poco. Il villaggio di Itapuã è un compromesso.
Dopo anni in cui gli indios chiedevano indietro le terre espropriate dai fazenderos, ecco che il governo federale dona loro quello che nessuno vuole. Il terreno su cui gli indios Tupinambá hanno da qualche anno costruito le proprie case, in fango e pietre, era usato fino a poco tempo fa dalla Polizia locale e dai paramilitari per disperdere le ossa dei cadaveri “scomodi”. Quelli ammazzati durante la dittatura (in Brasile fino al 1985) ma anche dopo, tossicodipendenti, narcotrafficanti, criminali qualunque fatti fuori senza tanti preamboli. È per questo che nessun fazendero reclama questa terra dove, a pochi metri, giace l'”ossada”, il cimitero clandestino. Mentre in superficie le casupole degli indios sono tutte chiuse da tetti moderni, fatti di Eternit. Per i Tupinambá è un “segno di modernità”. Nessuno li aveva avvertiti che potrebbe essere proprio questa la causa dei tanti tumori che colpiscono la loro comunità.
Casi rari e gente ai margini
«La nostra tradizione vorrebbe il tetto di foglie e paglia», racconta la 30enne Maria, nome indigeno Potyra Te, ma la maggioranza ha voluto l’amianto, l’Eternit, perché costa poco ed è «più moderno» sostengono alcuni, anche se d’estate trasforma le case in un forno a microonde. Forse anche per questo nessuno nel villaggio ha superato i 65 anni (l’età media in Brasile è di 75). Eppure siamo a pochi passi da uno dei mari più ambiti del mondo, quello di Bahía. E a neanche 20 chilometri da qui, ad Ilheus, lo scrittore Jorge Amado era solito bere il caffè presso il Bar Vesuvio, il cui proprietario diventò il protagonista maschile di uno dei suoi romanzi più celebri, Gabriella, garofano e cannella.
Ma il villaggio di Itapuã, invece, lo conoscono in pochi. Noi ci siamo arrivati grazie a Sebastián Gerlic, argentino naturalizzato brasiliano, così appassionato di culture indigene che, oltre ad essersi sposato con Maria, di etnia Kapinawá, ha sposato anche la sua causa, ovvero difendere i diritti sempre più oltraggiati degli indios. Oggi Sebastián dirige l’ong ThyDêwá (www.thydewa.org) che ha fondato con la moglie. È l’unica ong che in questa parte della Bahía difende i diritti dei Tupinambá perché, come spiega lui stesso, «altre ong s’interessano solo degli indios isolati, in via d’estinzione, ma nessuno o quasi di quelli “marginalizzati”, e cioè senza diritti, dimenticati dalla società brasiliana, tradizionalmente poco sensibile ai diritti indigeni».
Tra gli archi e il web
Per rendersene conto basta fare qualche chilometro e visitare il Museo Indigeno di Santa Cruz Cabralia. È il museo che dovrebbe raccontare la storia di ieri e la vita di oggi degli indios, gli unici che qui possano dire davvero di essere a casa loro, ed è in uno stato d’abbandono totale. Una vergogna per un Brasile che si sta proponendo al mondo come il Paese dei diritti umani. «Il problema principale per gli indios brasiliani è la terra», spiega Sebastian, «perché gli è stata rubata nei secoli dai latifondisti e dai coroneis locali, sinonimo di quello che da voi in Italia sarebbero i boss. Furti avvenuti a volte con stratagemmi, assai più spesso con la violenza. Risultato: gli indios si sono quasi del tutto estinti e i sopravvissuti sono segregati in riserve ridicole».
L’etnia Tupinambá, che vive nella regione bahiana compresa tra i comuni di Ilheus, Buerarema e Una, negli anni è stata progressivamente confinata in appezzamenti di terra sempre più piccoli. È stato negato loro persino l’accesso all’oceano. Accade spesso addirittura che quando alcuni di loro entrano in un bar in riva al mare vengano cacciati se hanno il corpo dipinto come vuole la tradizione. «Sappiamo chi è pro indio e chi è pro fazendero», spiega uno dei Tupinambá più anziani mentre intaglia un arco con frecce che venderà poi come prodotto d’artigianato, «evitiamo di farci cacciare non frequentando chi ci disprezza». Grazie a ThyDêwá i Tupinambá stanno pian piano imparando a difendere i loro diritti, primo quello della terra. E in questo le nuove tecnologie si stanno rivelando potenti alleate. Hanno creato un portale, www.indiosonline.net, per comunicare con altre tribù sparse in tutto il Brasile ma, soprattutto, attraverso Internet e la forza aggregatrice di YouTube hanno perfino ricominciato a riconquistarsi la terra. Con in mano piccole telecamere digitali e telefonini, ribattezzati “cellulari indigeni”, hanno preso a filmare, infatti, ogni istante delle azioni di rioccupazione delle terre che gli sono state sottratte, compresi i turbolenti dialoghi con i fazenderos che adesso, sapendo di essere ripresi, stanno reagendo con meno violenza.
Una strage “minore”
«È il modo migliore per evitare abusi di qualsiasi tipo, perfino gli omicidi», racconta Potyra Te. È lei che filma ed è sempre lei poi a scaricare i filmati su YouTube. È stato anche grazie a questa visibilità che lo scorso 29 gennaio il pubblico ministero federale di Bahía, Eduardo El Hage ha citato in giudizio lo Stato brasiliano chiedendo oltre un milione di reais, pari a circa 500mila euro, per risarcire i danni arrecati ai Tupinambá. «Questa comunità indigena», ha dichiarato il pm, «sta aspettando da 23 anni la demarcazione delle terre ed il termine entro il quale il governo doveva pronunciarsi determinando i confini è scaduto da 18 anni…».
Nel silenzio tombale del governo centrale, la disputa tra i ricchi proprietari terrieri del luogo, armati sino ai denti, e gli indios che camminano scalzi e vanno in giro con archi e frecce, è stata finora impari. Per il pubblico ministero El Hage, in mancanza di un territorio definito legalmente, gli indios sono costretti a vivere in condizioni precarie di salute e di abitazione, senza poter usufruire di un’area sufficiente per coltivare quanto necessario alla loro sopravvivenza. «Questo ritardo colloca gli indigeni in una situazione di estrema afflizione, dal momento che non possono esercitare il diritto di occupare porzioni di terra che tradizionalmente apparterrebbero a loro», ha concluso il magistrato.
Un intervento che si spera possa portare a una svolta, alla restituzione di tutte le terre ai 4.500 membri dell’etnia Tupinambá. Anche perché la frustrazione e la violenza già in passato hanno avuto un esito tragico: gli omicidi degli indios qui sono inferiori a quelli degli indios Kaiowá Guaraní, ma anche i Tupinambá hanno dei morti da piangere.
Nel Mato Grosso do Sul, lo Stato dove vivono i Kaiowá Guaraní, il Cimi – Consiglio Indigenista Missionario continua a denunciare gli omicidi che, quasi ogni settimana, stanno letteralmente chiudendo la cosiddetta “questione indigena” in un modo ancora più vergognoso del disprezzo con cui le locali autorità si prendono cura del museo indio di Santa Cruz Cabralia. «Solo nel 2011 ne hanno uccisi oltre una trentina», spiega un portavoce del Cimi, «compreso un cacique, un capo spirituale».
A Bahía la violenza è minore, «e i morti», spiega un giovane Tapinambá, «negli ultimi dieci anni sono stati una decina in tutta la comunità». Quando però ci racconta che la polizia federale, quella che dipende direttamente da Brasilia, la capitale, quella che dovrebbe proteggere i deboli e garantire la giustizia, sta invece dalla parte dei forti e dei violenti, dei latifondisti con annessi killer, un brivido ci percorre la schiena. «Hanno persino arrestato la nostra cacique», continua, «e l’hanno tenuta in carcere senza nessuna giustificazione; alcuni di noi sono stati torturati, uno ha perso la gamba. Neanche gli animali si trattano così…».
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