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Gli ultimi sopravvissuti
Film La rivolta degli indigeni in una regione del Brasile
di Redazione

Parte il dopo Venezia, le sale ricominciano a vivere (dopo il sonno estivo) e noi riprendiamo, e non casualmente, da un film italiano che in laguna non ha avuto alcuna menzione. E chissà perché. La terra degli uomini rossi avrebbe senza dubbio meritato un premio. Anche uno inventato appositamente (non sarebbe stata la prima volta). Vuoi per il rigore pure stilistico con cui è messo in scena (ottimamente montato, benissimo interpretato da attori indigeni alla loro prima esperienza). Vuoi per l’interesse che dovrebbe suscitare un dramma in corso da secoli. Sotto l’indifferenza di tutti. Parliamo del destino degli indigeni che nell’America del Sud hanno avuto la stessa sorte dei loro colleghi spazzati via dagli statunitensi. Ovvero la vita – si fa assai per dire – nelle riserve. Condizione a metà fra il tutoraggio e l’assistenzialismo: fatalmente conduce alla rassegnazione, spesso all’alcolismo.
Nel caso dei Guarani Kiaowa emarginati nel Mato Grosso du Sul, la condanna si chiama suicidio. Pensate: in una comunità ridotta a circa 30mila persone (erano un milione e mezzo qualche secolo fa), si sono contati – negli ultimi anni – oltre 500 suicidi. Da qui è partito Marco Bechis (che ha potuto avvalersi della collaborazione di Survival, un’associazione che da anni si occupa dei diritti delle popolazioni indigene). Due ragazzini vanno a caccia nella foresta e scoprono, noi con loro, i corpi penzolanti di due giovani donne. Le ennesime vittime. Di fronte alle quali la comunità indigena decide lo scontro: esce dalla riserva e si accampa nei pressi di una grande azienda agricola, là dove anticamente vivevano gli antenati. Naturalmente la loro scelta scompagina i giochi. E consente un lungo e ravvicinato confronto tra le due culture (nella narrazione non manca un amore, tra la figlia del proprietario terriero e Osvaldo, giovane indigeno che in scena e nella vita è un apprendista sciamano).
Vanno in scena così l’orgoglio di un popolo vinto e la pochezza dei vincitori; subentrano i meccanismi classici di chi corrompe e di chi tradisce, i ricatti della fame e il desiderio di continuare la lotta: luoghi tragici cui siamo da sempre abituati e che agiscono anche ai margini di questa foresta, essa stessa simbolo della perdita. Negli anni i campi da coltivare (a canna da zucchero necessaria per il business biocarburanti) ne hanno delimitato sempre più i confini. Riducendola quasi a corpo estraneo nel paesaggio. Sorte analoga a quella subita dai Guarani. Nell’indifferenza di tutti. E ora anche della giuria veneziana.
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