Politica
Gli Usa silenziano la Palestina all’Assemblea Onu. L’Italia e l’Europa restano ancora zitte davanti alla prepotenza di Trump?
«Washington invoca motivi di sicurezza, ma la decisione appare una scelta politica contro il riconoscimento dello Stato di Palestina», scrive il presidente emerito di Intersos Nino Sergi. «La comunità internazionale, l’Ue e l’Italia cederanno nuovamente alle scelte unilaterali di Trump? Anche se debole, l’unica vera strada da seguire è quella di due popoli, due Stati. Senza la Palestina-Stato, anche Israele rischia un futuro senza pace e stabilità»
di Nino Sergi

L’amministrazione Trump, per decisione del Segretario di Stato Marco Rubio, ha negato i visti al presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), novantenne, e a circa ottanta funzionari palestinesi, impedendo la loro partecipazione all’80ª sessione dell’Assemblea Generale dell’Onu (Ugna) a New York, alla quale tra pochi giorni interverranno i capi di Stato e di Governo, in un quadro di profonda crisi dell’ordine internazionale, già incrinato da decenni. Alcuni di essi hanno anticipato l’annuncio del riconoscimento dello Stato di Palestina, a fianco di quello di Israele: un passo in linea con la cosiddetta “soluzione dei due Stati”, che le Nazioni Unite sostengono sin dal 1947. Il prossimo 22 settembre, alla vigilia dell’inizio del dibattito generale, si terrà a New York anche un evento promosso congiuntamente dalla Francia e dall’Arabia Saudita per rilanciare tale soluzione, in coerenza con la “Dichiarazione di New York” del 30 luglio 2025 e alla luce del massacro di Gaza e del conflitto nei Territori occupati da Israele.
Le motivazioni ufficiali Usa e l’inconsistenza delle accuse
Washington ha giustificato il rifiuto dei visti citando tre presunti comportamenti palestinesi: il mancato rifiuto del terrorismo, il sostegno a campagne giudiziarie internazionali e i tentativi unilaterali di ottenere il riconoscimento dello Stato palestinese. Il Rappresentante-Osservatore permanente dello Stato di Palestina all’Onu, Riyad Mansour, non è colpito, in quanto già accreditato: potrà continuare a intervenire nelle sessioni dell’Unga, ma non sostituire la voce del presidente Abbas nel dibattito generale di alto livello dei capi di Stato e di Governo.
Le ragioni addotte sono fragili e contraddittorie. Se si considerano “colpe” le azioni giudiziarie internazionali o i tentativi di ottenere il riconoscimento dello Stato di Palestina, anche più della metà dei membri dell’Onu sarebbe passibile delle stesse accuse. Quanto al terrorismo, si tratta di un argomento utilizzato in modo strumentale e superato. L’Olp, Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha ufficialmente rinunciato alla lotta armata già nel 1993, riconoscendo Israele e impegnandosi per una soluzione pacifica. La stessa Anp, Autorità Nazionale Palestinese, ha da sempre nel suo mandato la cooperazione con Israele in materia di sicurezza e prevenzione del terrorismo. Mahmoud Abbas ha perfino rafforzato la sua linea contraria alla violenza armata, privilegiando la via diplomatica, pur a costo di gravi perdite di consenso interno.
L’Accordo del 1947 tra l’Onu e gli Stati Uniti, relativo alla sede delle Nazioni Unite, in particolare l’Articolo IV, Sezioni 11–13, è molto chiaro: gli Usa si impegnano a non ostacolare il transito e l’ingresso dei rappresentanti degli Stati membri, degli osservatori e dei funzionari collegati all’organizzazione. I visti devono essere concessi gratuitamente e senza indugio (expeditiously), a prescindere dai rapporti bilaterali tra gli Stati interessati e gli Stati Uniti. L’unica eccezione, fissata nella legislazione interna statunitense, è rappresentata da casi in cui vi sia una reale minaccia per la sicurezza nazionale. Nel caso di Abu Mazen, l’applicazione di questa clausola appare forzata: è difficile credere che possa rappresentare un pericolo concreto.
Lo status della Palestina all’Onu
Dal 29 novembre 2012, con la risoluzione 67/19, la Palestina è riconosciuta come Stato osservatore non membro presso l’Assemblea Generale. Questo le consente di partecipare ai lavori, di intervenire nei dibattiti e di aderire ai trattati multilaterali. Dal 30 settembre 2015, con la risoluzione 69/320, la bandiera palestinese sventola al Palazzo di Vetro accanto a quelle degli Stati membri. È quindi pienamente legittimo che Mahmoud Abbas, in qualità di presidente dell’Olp e dell’Anp, insieme agli altri rappresentanti palestinesi, prenda parte all’Unga: la loro esclusione rappresenta un vulnus non solo politico ma anche giuridico.
Questa decisione non è un episodio isolato ma si inserisce in una linea di condotta più ampia. Il vero obiettivo sembra essere quello di limitare la voce della Palestina e minacciare chi ne sostiene il pieno riconoscimento, adottando l’attuale politica israeliana e impedendo la libertà di dibattito dell’Assemblea Generale. La motivazione ufficiale – la difesa della sicurezza nazionale degli Stati Uniti – appare poco credibile. Se Mahmoud Abbas non rappresenta un pericolo reale, è evidente che si vuole tappare la bocca al libero dibattito, decidendo unilateralmente chi ha diritto di parlare e cosa può essere detto.
È bene ricordare che hanno già riconosciuto lo Stato di Palestina 147 Stati membri dell’Onu, pari al 76% dei 193 membri. Tra i Paesi occidentali, Norvegia, Spagna, Irlanda e Slovenia lo hanno formalmente riconosciuto nel 2024. Quest’anno sono stati annunciati i riconoscimenti da parte di Francia, Regno Unito, Canada, Australia, Belgio e Malta. Dal 1988, tutti i 22 membri della Lega degli Stati Arabi hanno riconosciuto lo Stato di Palestina: tale riconoscimento non è stato intaccato nemmeno dopo la normalizzazione dei rapporti diplomatici con Israele da parte di Egitto e Giordania, e più recentemente – con gli Accordi di Abramo – di Emirati, Bahrein, Marocco e Sudan.
L’appello all’Italia e all’Europa
La comunità internazionale, gli Stati dell’Unione Europea e l’Italia resteranno a guardare passivamente, cedendo nuovamente alle scelte unilaterali di Trump e alla sua volontà di concentrare su di sé il processo decisionale? In tanti auspichiamo che l’Italia non si sottragga a tale riconoscimento. come chiedono anche i 70 ex ambasciatori italiani firmatari della petizione al Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, sottoscritta già da 60mila cittadini. Anche 209 ambasciatori europei ed ex-direttori generali delle istituzioni europee hanno chiesto con forza ai vertici di Bruxelles di agire, invece di limitarsi a condannare. Propongono sanzioni concrete e decisioni operative: dalla sospensione di ogni licenza o esportazione di armi o tecnologie a duplice uso, all’interruzione di progetti che sostengano azioni contrarie al diritto internazionale; dal blocco della collaborazione con entità israeliane coinvolte nei crimini alla liquidazione degli investimenti statali e dei fondi sovrani nelle società collegate alle colonie illegali; fino alla proibizione dell’accesso ai porti e allo spazio aereo da parte di navi e aerei militari israeliani, oltre a visti negati e blocco di beni. Da mesi assistiamo a uno dei più gravi crimini tollerati dalla comunità internazionale: una violenza sproporzionata, deliberata e continuativa. La società civile ha reagito in tutto l’Occidente con manifestazioni imponenti, pressioni politiche, molteplici iniziative di boicottaggio e ora con la missione navale fino alle coste di Gaza. Nel frattempo, gli Stati si sono fermati a improduttive dichiarazioni di principio, mostrando un’impressionante e vergognosa ipocrisia. L’operazione in corso su Gaza City, inutile sul piano politico e devastante per un popolo già stremato, segna ora uno spartiacque: dal dopoguerra e dal tentativo di regolare la convivenza internazionale si regredisce, senza una reazione decisa dei governi democratici, verso logiche di potenza e mire coloniali.
Va ribadito con forza che la Palestina deve essere difesa integralmente, riconoscendo ai palestinesi il diritto a una terra sicura e a uno Stato sostenibile, da costruire con il sostegno della comunità internazionale. C’è chi presenta questo obiettivo come inutile, lavandosene le mani e continuando a non fare nulla. C’è chi afferma che si tratta ancora una volta di ipocrisia, dopo aver chiuso gli occhi – anche a causa di errori e scelte insensate da parte palestinese – su decenni di abusi, sopraffazioni, colonizzazione illegale e sistematica, espulsione e atti di pulizia etnica, lasciando fare così tanto e così a lungo, da rendere sempre più debole il progetto dei due popoli-due stati che oggi si vorrebbe fare rinascere. È vero, c’è una buona dose di ipocrisia. Eppure questa rimane l’unica vera – e ancora possibile – strada da seguire, anche se con un ritardo impressionante e politicamente, oltre che moralmente, colpevole. Senza la Palestina-Stato, anche Israele rischia un futuro senza pace e stabilità.
Serve un ampio consenso (e c’è). Serve la pressione della società civile (e c’è). Serve che gli Stati europei si sveglino dal torpore ed escano dalla paralisi che sta bloccando il progetto europeo e, con esso, ogni decisione su temi oggi vitali. Serve che l’Italia ritrovi quella voglia di protagonismo attivo e propositivo nell’area mediterranea e non solo, con messaggi coerenti, capaci di guidare, di individuare modalità concrete per trasformare le parole in fatti, di opporsi – sempre, senza gli abituali doppi standard – ai crimini contro l’umanità. Occorre che l’ipocrisia, da espressione di temporanea impotenza, si trasformi in coraggiosa azione. Si può, si deve fare: il contesto internazionale attuale lo impone.
Da tempo è chiara la necessità di riformare l’Onu, che non è riuscita a rispondere adeguatamente alla finalità di difesa della pace e di prevenzione dei conflitti. Purtroppo gli Stati non hanno voluto che tale mandato potesse essere attuato. In particolare, dopo la fine della guerra fredda, il mondo ha avuto davanti a sé un’occasione storica. Nel gennaio 1992, per la prima volta, il Consiglio di Sicurezza si riunì a livello di capi di Stato e di Governo e chiese al Segretario Generale Boutros Boutros-Ghali di presentare proposte per un nuovo protagonismo dell’Onu. Pochi mesi dopo, Boutros-Ghali presentò all’Assemblea Generale il rapporto Un’Agenda per la pace. Come ho già avuto modo di illustrare su VITA, tale Agenda proponeva un progetto ambizioso volto a fondare le decisioni su un consenso condiviso e a superare le logiche di veto e i privilegi di pochi Stati. Una condizione considerata necessaria per prevenire i conflitti, intervenire per fermarli, mantenere la pace raggiunta, ricostruire istituzioni e infrastrutture nei Paesi lacerati e affrontare le cause profonde delle guerre. Inizialmente accolto con favore, il piano fu presto ridotto a semplici linee di indirizzo, ostacolato soprattutto dai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza – compresi Francia e Regno Unito – riluttanti a cedere spazi di sovranità. A prevalere furono interessi nazionali ristretti, paure e calcoli di corto respiro. Le conseguenze di quel mancato coraggio politico sono oggi sotto i nostri occhi.
AP Photo/Mark Schiefelbein/LaPresse
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