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Grazie Candido, inviato nel sociale

di Redazione

Il tributo popolare ricevuto, dopo la morte, da Candido Cannavò, mi spinge a dedicargli altre affettuose riflessioni, dopo quanto ho scritto nel blog di Vita.it . Mi colpisce la trasversalità delle persone che hanno ricordato questo giornalista anomalo nel panorama italiano e internazionale. Culture diverse, pezzi di società differenti, l’intera gamma delle generazioni, uomini e donne di ogni regione. Folla degna di un personaggio carismatico, eppure Cannavò, pur essendo notissimo, non si comportava da guru dell’informazione. Lui che ha diretto per vent’anni la Gazzetta dello Sport, ossia il quotidiano più venduto e letto d’Italia, è stato infatti capace di reinventarsi, nel momento della liberazione dal lavoro attivo, colmando un’esigenza personale, quella cioè di fare davvero il giornalista-scrittore: inviato speciale di se stesso, nelle pieghe meno raccontate della società. Ha esplorato il carcere, si è immerso nel mondo delle persone con disabilità, ha raccontato i “pretacci” delle periferie e degli ultimi. Tre argomenti classici del nostro cosiddetto giornalismo sociale. Che però non sono quasi mai diventati notizia per tutti, anche per i lettori della Gazzetta. Cannavò è riuscito laddove altri neppure hanno tentato. Ho avuto la fortuna di seguire da vicino la gestazione e la realizzazione di E li chiamano disabili. Un libro scomodo per chi fa comunicazione “politicamente corretta”, perché Cannavò racconta molte storie di persone che conosco da sempre, e lo fa usando parole semplici e dirette, a volte esagerando nell’enfasi e nelle emozioni, ma sempre con la curiosità e la profondità del vero giornalista, che non si preoccupa dei dettagli, ma cerca ogni volta di capire, di conoscere, di raccontare il “nuovo”. Cannavò è riuscito, con le parole, a mostrare una grande verità: le persone con disabilità, anche in situazione di grande difficoltà, possono essere una enorme risorsa per se stessi, per la famiglia, per la società.
Ancora grazie, Candido.

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