Venezia 82
Hind Rajab e la potenza della voce per raccontare il volontariato
Ha vinto il Leone d'Argento il film tunisino costruito attorno all'audio vero della telefonata con cui la piccola Hind Rajab, sola in auto tra i suoi familiari già morti, chiama la Mezzaluna Rossa per chiedere aiuto. Un film che mette in scena tutte complicate dinamiche del volontariato di emergenza, con gli operatori che avvertono l'urgenza di intervenire e i coordinatori che invocano la necessità di coordinamento: un racconto tanto più impressionante se affiancato a quello di un'altra sala di comando, quella del Pentagono, che ci arriva dal film di Kathryn Bigelow. La scelta di usare l'audio si rivela toccante e potente: una pista di lavoro per chi nel non profit si occupa di comunicazione

The Voice of Hind Rajab, Leone d’Argento all’82^ Mostra del Cinema di Venezia, è anche un film sul volontariato. La vicenda, ormai nota, è quella del tentativo di soccorso di una bambina palestinese, intrappolata a Gaza, in auto, in mezzo ai suoi familiari ormai morti, da parte della Mezzaluna Rossa. Il fatto è che la vicenda è vera e nel film si ascolta la vera voce della bambina nel corso di quelle telefonate disperate (sono più di una, interrotte per problemi di linea). Per inciso, un dubbio viene sull’utilizzo di quel materiale – certo avendo avuto il consenso della madre e per la causa – perché quella bambina non saprà mai, ahimè, dell’utilizzo della sua voce che grida “aiuto, venite a prendermi”. È un film a fortissimo impatto, una fiction costruita attorno a quei veri dialoghi al telefono, senza mai vedere la bambina – non c’è un’attrice che recita quel ruolo – perché la prospettiva è per tutto il film quella del centralino della Mezzaluna Rossa, cioè dei volontari.
A Venezia c’era un altro film, molto bello, girato in una situazione simile: House of Dynamite di Kathryn Bigelow. In quel caso la sala di controllo è quella della Difesa americana, che sui suoi monitor traccia i movimenti bellici nel mondo. Nella finzione del film, su quegli schermi viene avvistato un missile che decolla dal Pacifico diretto verso gli Stati Uniti, senza che si riesca a capire con esattezza da dove sia partito. Militari e funzionari del Pentagono in questo film, volontari della Mezzaluna rossa nell’altro; da qui partono gli ordini di lancio alle basi missilistiche sparse nel pianeta in posti oscuri, da là vengono inviate ambulanze in soccorso. Situazioni simili a vedersi – occhi puntati sui monitor, telefonate continue, catene di comando complesse, mappe, fattore tempo decisivo – ma colpisce nel parallelismo che l’uomo si dia uno stipendio per distruggere vite umane e lavori gratis per salvarle.

The Voice of Hind Rajab non è però un film che celebri il volontariato, anzi, è molto onesto a raccontarne limiti e contraddizioni, rabbia e frustrazione. Il sistema di soccorso è posizionato a 80 km da Gaza, guida le ambulanze ferme in città in posti sicuri a dirigersi laddove serve aiuto, ma non può semplicemente girare un indirizzo segnalato, perché il soccorso deve passare per autorizzazioni e garanzie di percorsi sicuri, sui quali i soldati israeliani acconsentono a non sparare. La parola “coordinamento” è il vero demone del film, perché indica nel gergo dei soccorsi il lento allineamento di tutti i livelli di comando per poter dare il via libera all’invio dell’ambulanza. È qui che va in scena un dilemma tipico di queste organizzazioni, la prospettiva del personale di contatto – chi presta aiuto, chi riceve le richieste – che sente l’urgenza di intervenire, e quella differente delle figure organizzative o amministrative, che sentono la necessità di garantire il corretto funzionamento dell’organizzazione e il rispetto delle procedure. Solo che qui le procedure sono sbagliate perché non consentono la tempestività dei soccorsi – “8 minuti” ripetono continuamente nel film, per indicare la distanza reale che c’è fra l’ambulanza e la bambina, che però diventano ore per via della necessità di “coordinamento” – e soprattutto sono disattese dagli stessi israeliani, che incredibilmente sparano alle ambulanze. Il paradosso aggiuntivo è che qui salva vite umane anche il responsabile del coordinamento, che ai suoi telefonisti arrabbiati per la lentezza delle procedure mostra le foto dei volontari uccisi in passato alla guida di ambulanze proprio per aver dato il via libera a interventi “troppo tempestivi”.

C’è un altro elemento che spicca nel confronto con la sala di controllo della Difesa: la differenza di scala, e tutto quello che questo comporta. Militari e funzionari parlano di milioni di morti, senza volto, per un missile e di tutti gli altri morti che seguiranno nel contrattacco. Qui invece va in scena la vita di una sola bambina, che ha un nome, di cui sentiamo la voce, di cui capiamo la storia. Si piangono fiumi di lacrime in sala per la vicenda di Hind Rajab, si esce invece terrorizzati dalla visione di quella sala di controllo statunitense. Il problema della geopolitica è anche questo: disumanizza le vicende perché le guarda troppo dall’alto e disattiva l’impegno personale perché ti senti inutile. Se il gioco è un risiko fra generali o capi di Stato, all’uomo di strada è concesso solo di avere paura.
Il film tunisino sulla vicenda a Gaza è costruito su una voce, su una telefonata, non su immagini di guerra. Annotiamo due cose: la prima, banale, riguarda il telefono, un’invenzione a cui dovremmo fare un monumento, per quanto sia essenziale in tantissime forme di aiuto, pane quotidiano di un’infinità di attività di volontariato e ormai salvi vite umane almeno quanto il bisturi. La seconda riguarda la voce, l’audio: siamo abituati a pensare che la documentazione e la denuncia passino dalle immagini, mentre in The Voice of Hind Rajab sentiamo solo la voce di una bambina palestinese e i colpi dell’artiglieria israeliana ma l’immersione è completa, non c’è bisogno di altro. Questa è una pista interessante: forse il volontariato deve lasciare un po’ le immagini e imparare a lavorare di più sull’audio per raccontarsi e per testimoniare.
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