Non so se avete notato, in questi giorni, l’appiattimento dell’informazione televisiva pubblica (quella privata è libera di fare come crede) a proposito della vicenda dei migranti eritrei. L’argomento apparentemente è stato trattato con ampiezza, e collocato spesso in apertura dei notiziari, ma il racconto della vicenda è stato quasi sempre freddo, incolore, pronto a dare voce prima di tutto al palazzo, al governo, alla difesa d’ufficio dell’operato italiano in questo caso. Nessuno si aspetta prove di coraggio cronistico ai limiti del suicidio professionale, ma questa vicenda si prestava a un racconto in presa diretta, alla ricerca di testimonianze, a un approfondimento dei tanti lati oscuri di un episodio che rivela tutte le contraddizioni insite nella lotta al fenomeno degli sbarchi di migranti. Nel caso degli eritrei, inoltre, era possibile raccontare meglio le condizioni nel Paese di origine, il dramma politico e sociale che vive una popolazione rispetto alla quale, tra l’altro, l’Italia ha un passato di responsabilità non indifferenti. Anche le osservazioni critiche del mondo cattolico, dai vescovi all’Avvenire, sono state riportate di passaggio, quasi con fastidio. Nessuna intervista degna di questo nome, che io ricordi, tanto meno un contraddittorio, tranne le “veline” dei politici di maggioranza e di opposizione, recitate davanti a un microfono anonimo. Diventa difficile immaginare quale futuro ci aspetti, dal punto di vista dell’informazione quotidiana televisiva del servizio pubblico (perfino il Tg3 è stato attento a non farsi cogliere in fallo, dopo le esternazioni di Berlusconi). L’omologazione totale dei telegiornali alle politiche governative da un lato potrebbe far calare l’audience, dall’altro, in caso contrario, significherebbe che ci stiamo abituando a non pensare liberamente, a non essere più curiosi della verità dei fatti. E tutto questo non è un bene per la nostra democrazia.
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