Non profit

I venture capitalist sono pronti Ora tocca al terzo settore

di Redazione

Fund raising e venture philanthropy. Sono le linee guida che contribuiranno a determinare lo sviluppo del terzo settore italiano nei prossimi anni. Non che oggi siano estranee al settore, tutt’altro. Si tratta di due termini inglesi utilizzati non per vezzo, ma perché rappresentano il tipico prodotto della cultura non profit anglosassone, ovvero un rapporto diretto con soggetti privati ? singoli cittadini e organizzazioni ? coinvolti (o, continuando con l’inglese, engaged) in veste di apportatori di risorse donative (grant) e finanziarie (equity).
Ed è proprio la finanza specializzata per il terzo settore a dimostrarsi particolarmente dinamica in Italia. Il campo è però in ulteriore espansione, coinvolgendo, anche se in misura ancora limitata rispetto ad altri Paesi, operatori finanziari ? i cosiddetti venture capitalist ? che si specializzano nel finanziamento di iniziative non profit innovative e ad elevato impatto sociale ed ambientale. Inoltre, una quota sempre più rilevante di fondazioni erogative ? sia d’impresa che bancarie come CRT ? migrano progressivamente dagli interventi attraverso donazioni al finanziamento vero e proprio.
Rimane da chiedersi cosa ne pensano i destinatari di queste risorse, ovvero il terzo settore. L’impressione è che non sia del tutto attrezzato per cogliere le nuove opportunità. E i primi a saperlo sono proprio i soggetti di venture philanthrophy che hanno rotto gli indugi e intrapreso due distinti percorsi. Il primo consiste nell'”efficientamento” del terzo settore ? come affermava l’amministratore delegato di Banca Prossima in un recente incontro a Torino ? attraverso la fornitura di servizi reali ? consulenza, formazione, centrali d’acquisto ? che sono la vera nota dolente, soprattutto in Italia. La seconda direzione si chiama philanthrocapitalism, altra parola inglese che dava il titolo ad un libro di un certo successo uscito qualche tempo fa. In questo caso sono gli operatori finanziari e i filantropi stessi che, forse scottati da un rapporto controverso con le organizzazioni non profit e le loro reti, decidono di fare da soli, agendo direttamente le loro competenze imprenditoriali per la produzione di beni e di servizi.
Un cambio d’epoca, i cui effetti saranno visibili non solo nelle performance, ma nell’identità stessa del terzo settore.

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