Non profit
il bello del basket?Ti insegnaa guardare in alto
Reinserimento Un progetto lanciato da un ex allenatore
di Redazione

Dalle palestre di serie A a quelle della periferia di Bologna, a giocare con i ragazzi disabili. È la storia di Marco Calamai, 57 anni, fiorentino, dall’82 al 94 allenatore nelle massime serie del campionato di pallacanestro, che nel 1995 ha deciso di scendere dall’Olimpo del basket e dedicarsi a giocatori un po’ meno dotati. Un progetto nato per caso che oggi coinvolge 300 giovani in 14 centri in tutta Italia e da cui è nato anche un libro.
Vita: Come le è venuta l’idea?
Marco Calamai: Ero in vacanza a Monzuno, dove il centro di terapia intensiva La Lucciola porta in ritiro i suoi ragazzi diversamente abili. E ho pensato: «Praticano solo sport individuali. Perché non un gioco di squadra?».
Vita: Una bella scommessa…
Calamai: La vera scommessa l’ha fatta la dottoressa Emma Lamacchia che mi disse: «Chi ci ha già tentato non c’è riuscito. Proviamo». Secondo gli esperti i loro problemi non permettono rapporti interpersonali. Non dimentichiamo che ci sono anche autistici.
Vita: Difficoltà o critiche?
Calamai: Ho allenato questi ragazzi urlando, riprendendoli, incitandoli con forza. Molti educatori pensavano che fossi pazzo e me lo dicevano pure. Di solito nessuno alza mai la voce con un autistico.
Vita: Però i giocatori sono rimasti…
Calamai: Qualche anno dopo una mamma mi ha raccontato che, alla fine del primo allenamento, aveva detto al figlio di volerlo portare via. Ma lui l’aveva fermata dicendole: «Non capisci, lui lo fa per insegnarci». Bisogna ammetterlo, questi genitori sono stati dei pionieri.
Vita: E i risultati?
Calamai: Molti hanno aumentato la fiducia in se stessi, hanno capito che nel basket avevano buoni risultati e ne parlavano con tutti. Si sono aperti e hanno iniziato a interagire con il mondo.
Vita: Il progetto ormai è arrivato in tutta Italia.
Calamai: Dai 30 giovani di Modena ora ne abbiamo 300. Io sono a Bologna, ma abbiamo centri in altre 14 città.
Vita: Gli allenatori seguono tutti il suo metodo?
Calamai: Sono persone che io conosco e che mi hanno affiancato per un certo periodo di tempo. Il nostro non è un lavoro di terapia o di riabilitazione. Io mi baso su tre regole: puntare sulle abilità per potenziare l’autostima; giocare per divertirsi; capire che lo scambio della palla è l’inizio di una relazione, perché bisogna impegnarsi per l’altro e con l’altro. Ma soprattutto un tecnico deve lasciarsi coinvolgere da quello che fa.
Vita: Il basket è più adatto di un’altra disciplina?
Calamai: Sì, perché ha le caratteristiche della vita. È dolce nel passaggio ed è forte in uno scontro. Per tirare bisogna guardare in alto, come quando si prega o si spera. Nella pallacanestro possono giocare degli spilungoni e della gente normale, come Pozzecco che è alto “solo” 1,80. È perfetto per apprezzare la diversità e battere i propri limiti.
Vita: La sua squadra di Bologna, la Fortitudo Overlimits, è un team misto. Eppure vince.
Calamai: Schieriamo tre normodotati e due disabili. Sempre. Siamo arrivati per due anni secondi a livello nazionale nel torneo degli oratori, dove ci sono anche giocatori di serie B o C. I ragazzi mi stupiscono di continuo, perché hanno un legame fortissimo e in partita danno tutti il 110%, facendo cose che non ti aspetti.
Vita: Quindi sono partite vere?
Calamai: Assolutamente. Non ho mai voluto dare una palla più piccola a questi ragazzi o un canestro più basso. Io mi sento un vero allenatore perché loro sono veri giocatori.
Vita: Sogni per il futuro?
Calamai: Spero che il Comitato Paralimpico ci aiuti per creare in tutte le città dei centri di formazione per allenatori.
Vita: Molti penseranno che per lasciare la A e dedicarsi ai disabili bisogna essere speciali…
Calamai: Speciali sono i giovani con cui lavoro. Lo spastico che non si regge in piedi, ma che riesce a fare canestro tenendosi a un tavolo. O la bambina autistica che non aveva mai parlato e che, al termine di un allenamento, ti dice «ciao» e inizia a chiacchierare.
Vita: È soddisfatto?
Calamai: Quando arrivo in palestra vedo questi ragazzi che mi ascoltano e s’impegnano. Ho scoperto lati di me che non conoscevo. In più sono circondato da psicologi ed esperti, come un allenatore di un college americano. Come posso non essere soddisfatto?
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.