Libri

Il carcere ripensato da dentro

Dall’iniziativa di chi è detenuto può scaturire un modello nuovo, “ibrido” di concepire l’istituzione penitenziaria. Tanti casi nel Sud del mondo lo dimostrano. Francesca Cerbini, antropologa, ne parla ai Dialoghi di Pistoia

di Giuseppe Frangi

«Pensare il carcere partendo dai soggetti che lo vivono e lo abitano, o meglio, a partire dalla loro “visione del mondo”, come direbbero antropologhe e antropologi». Da anni Francesca Cerbini è al lavoro per documentare sulla carta e nei fatti che un altro carcere è possibile. Nel 2012 ha pubblicato un libro per raccontare l’esperienza di una casa di reclusione boliviana, quella di San Pedro: pur essendo ufficialmente sottoposta e regolamentata dalle leggi dello Stato boliviano, era di fatto gestita dai reclusi stessi, i quali concepiscono e rimodellano secondo le loro possibilità economiche lo spazio carcerario, abitato anche da quelle donne che, con i propri figli, hanno deciso di convivere col marito detenuto. Il titolo del libro pubblicato da Mimesis prendeva spunto dalla definizione di un recluso: “La casa di sapone” in quanto il carcere è un luogo “scivoloso” in cui è difficile rialzarsi dopo essere caduti. Francesca Cerbini ha continuato le sue ricerche e ha pubblicato ora un nuovo libro per la casa editrice Eleutheria, “Prison Lives Matter”. Ne parla domani sabato 24 maggio ai Dialoghi sull’uomo di Pistoia, la manifestazione diretta da Giulia Cogoli.

Cerbini è ricercatrice all’Università di Palermo, dove insegna Antropologia culturale, e collabora con il Centro em Rede de Investigação em Antropologia (Criadi Lisbona. Il nuovo libro è un viaggio etnografico nelle galere contemporanee: partendo dall’assunto che la vita dei reclusi importa, l’autrice propone un nuovo statuto teorico dell’istituzione penitenziaria. In un continuo rimando tra contesti geografici e sociali molto diversi, Cerbini parte dalle esperienze dei soggetti che il carcere lo vivono e dalla loro visione del mondo. Grazie alle numerose ricerche condotte nell’ultimo decennio all’interno degli istituti di pena del Sud e del Nord globale, scaturisce un radicale cambio di prospettiva che scardina l’univocità del penitenziario ideale, sinonimo di ordine e disciplina, e permette di riconsiderare le connessioni e la continuità tra dentro e fuori, tra carcere e società. Un mosaico di narrazioni e contronarrazioni che restituisce la multiforme violenza della governance del carcere contemporaneo. Cerbini ha condotto ricerche etnografiche prevalentemente in Bolivia, Brasile e Portogallo concentrando i suoi interessi in contesti di forte marginalità ed esclusione sociale. «Credo che negli ultimi anni la ricerca antropologica e sociologica abbia messo in discussione molte delle immagini “classiche” del carcere», spiega la ricercatrice. «Sono le immagini tramandate da opere scientifiche, romanzi e inchieste giornalistiche, che hanno poi alimentato cinema, programmi televisivi e serie truculente. È una narrazione cristallizzata nella versione più sensazionalista e polarizzata della lotta tra buoni e cattivi: i captivi, per l’appunto». 

In che modo questo approccio nuovo di ricerca etnografica cambia la narrazione del carcere? «Innanzitutto attraverso la restituzione di un vissuto che è resistente alla multiforme violenza del carcere. Poi esplorando le connessioni, i legami e le continuità con l’esterno. e le sue dinamiche gestionali. Questo ha permesso la documentazione di un ventaglio di pratiche “ibride” di governo del penitenziario difficilmente ascrivibili a formule teoriche univoche e cristallizzate. Possiamo dire di aver lavorato sulla “porosità” del carcere come fattore che guida a cambiare lo sguardo sull’istituzione penitenziaria».

Francesca Cerbini ha intitolato il suo libro “Prison Lives Matter”, Le vite in carcere importano. Nelle prime pagine spiega le ragioni di questa scelta: «La vita e il vissuto di persone tanto marginali come le recluse e i reclusi importa. Importa il carcere in quanto laboratorio di un presente e di un futuro distopico in cui la creazione ad hoc di utili nemici più o meno immaginari, persone deprivate della benché minima umanità in nome della nostra sicurezza e libertà, fomenta la costruzione di una società militarizzata». L’autrice porta a Pistoia anche la narrazione di modelli di autogoverno delle carceri. «Le etnografie presentate nel contesto dei Dialoghi di Pistoia», dice, «vogliono metter in risalto il protagonismo che le comunità carcerarie si sono guadagnate in alcuni contesti in cui talvolta hanno assunto il ruolo manageriale dello Stato nelle sue diverse funzioni di controllo, protezione e sostento degli internati. In questi casi sono state in grado o sono state messe nelle condizioni di sviluppare un potenziale negoziale senza precedenti. È importante prestare attenzione alle ricerche di sociologi, antropologi, criminologi che sono stati in grado di raccontarci una storia diversa sul carcere senza abbandonarsi mai alla celebrazione di un modello. Sono ricercatori che non hanno abdicato alla prospettiva critica e neppure hanno abbracciato il linguaggio e la narrazione autolegittimante di un’istituzione in cui la violenza, straordinaria e ordinaria, sono il punto di partenza e non il fine ultimo dell’analisi teorica e della riflessione metodologica».

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